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Il gatto nero

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Chi mi ha riferito questa storia, l’ha sentita raccontare in una fredda notte, vicino al caminetto, da una persona che giurò fosse realmente accaduta.

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Tempo fa a Muravera viveva e tribolava un contadino, tale Emilieddu. Gran lavoratore, quella fredda mattina di autunno, come faceva tutti i giorni, compresi Natale e Capodanno, si alzò all’alba per andare a lavorare nei campi a sa Spregaxia. Quel giorno la moglie l’aveva pregato di restare a casa perché, gli disse, aveva fatto un brutto sogno; ma il profumo della sua terra calda e umida era per lui come una Fede. Così decise di non ascoltare sua moglie; prese pane e formaggio per il suo magro pranzo, un po’ di vino nero, assicurò i buoi al carro e si avviò lentamente. Arrivato, si mise subito all’opera: la campagna richiedeva molto lavoro e il sole cominciava a coricarsi presto. Quel giorno lavorò così di buona lena che non si accorse che  si stava facendo tardi e stava calando il buio.

Allora si affrettò; aveva finito di caricare le fascine ben legate ed era appena salito sul carro, quando si levò un vento minaccioso, terribile. Il cielo si era fatto cupo e all’improvviso fu squarciato dai lampi.  Si avviò mentre cominciava a piovere forte. Quando arrivò nei pressi di San Giovanni, i buoi rallentarono fino a fermarsi. Il vento si era placato, non pioveva quasi più e un silenzio pesante mai sentito prima riempiva tutto intorno. All’improvviso Emilieddu udì un lamento debole, che non aveva nulla di umano, provenire da un cespuglio, che cominciò ad animarsi come se qualcuno lo scuotesse forte.

Le foglie si aprirono e si udì un sibilo sinistro seguito da un tonfo:  qualcosa di scuro aveva spiccato un balzo fin sopra al carro. Si girò e vide un grosso gatto, nero come l’Inferno, aggrappato con le unghie al legno del carro; con il cuore in tumulto, cercò di scacciarlo, ma quello lo guardò fisso negli occhi, con un orrendo sorriso su due file di denti sanguinolenti. I buoi erano in preda ad una grande agitazione; Emilieddu li incitò a ripartire, ma il carro non si mosse, pesante come se fosse ancorato al suolo.

Biascicò una preghiera e il carro iniziò a muoversi; fatti pochi metri, l’uomo si girò sperando che il suo incubo fosse svanito: il gatto era ancora lì a trapassarlo da parte a parte con quegli occhiacci neri come la pece. Ma non era ancora finita, anzi era appena cominciata per il pover’uomo! Una voce cavernosa, disumana, uscì dalla gola dello spaventoso animale:
« Chi bisi a Carlotta, ca sa filla è morta, morta su lunisi e interrada su mrecurisiii… ».
Emilieddu fu assalito da un terrore denso come una lastra di piombo e non si girò più, anche se sentiva l’oppressione di quella paurosa presenza.

All’ingresso di Muravera lo avvolse una strana, fitta nebbia e, arrivati al cimitero del paese, risuonò ancora alle sue spalle quella voce cupa e roca:
« Chi bisi a Carlotta, ca sa filla è morta, morta su lunisi e interrada su mrecurisiii… ».
Un rumore secco, come uno schiocco di frusta, lo fece girare appena in tempo per vedere la spaventosa creatura sparire nel buio del cimitero, attraverso il cancello stranamente aperto. Emilieddu, tremante di freddo e di paura, riuscì a stento ad arrivare a casa.

La moglie, preoccupata per il ritardo, corse fuori e lo trovò rannicchiato sul carro. Lo fece scendere e lo trascinò a fatica dentro casa, davanti al fuoco. Mentre lo asciugava, il marito farfugliava parole senza senso: lei pensò che stesse delirando per la febbre alta. Ma ad un tratto l’uomo sembrò risvegliarsi dal suo torpore e le raccontò l’incredibile storia del gatto nero che parlava e delle strane parole che aveva detto, di come era salito sul carro ed entrato nel cimitero. Con la fronte madida di sudore, Emilieddu aveva il respiro rantolante. Mentre la moglie gli teneva la fronte, lui si scosse un attimo e poi rese l’anima a Dio. Era il 31 di ottobre, la notte de is animeddas.

Maria Cinus