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La pratica dell’eutanasia in Sardegna

La pratica dell'eutanasia in Sardegna

Dal 1800 ad oggi sono comparsi vari scritti intorno a s’accabadora, sia per affermare che per negare la presenza di questa inquietante figura nel mondo tradizionale sardo.
Secondo la concezione comune s’accabadora era una vecchia donna che veniva chiamata a por fine all’agonia dei moribondi, quando questa si protraeva per molti giorni provocando inutili sofferenze al malato. Una forma di eutanasia dunque, praticata in casi di necessità.

Il primo scrittore che parlò di questa usanza fu Alberto Della Marmora.
Trattandosi di uno scrittore serio ed attento è da presumere che le sue fonti d’informazione fossero abbastanza attendibili.
Nel 1826 scriveva nella prima edizione del suo Voyage: “. . .tuttavia io non posso nascondere che in alcune parti dell’isola venivano incaricate specialmente delle donne, alle quali si è dato il nome di Accabadure, per abbreviare la fine dei moribondi. Questo resto di barbarie si è per fortuna perduto da un centinaio di anni a questa parte(1).

Con tutta probabilità il Della Marmora venne a sapere di questa pratica a causa del suo lungo soggiorno in Sardegna, per essere entrato in intimità con alcuni intellettuali sardi che dovevano esserne a conoscenza.
Il popolo, come si sa, è molto guardingo e diffidente e non si lascia andare facilmente a discorsi di tal genere, che già allora dovevano essere tabù anche in seno alla propria famiglia.
L’argomento era troppo delicato e scottante, non facile da spiattellare a chi che sia, tanto meno a chi sardo non era.

Vogliamo esaminare in questa ricerca le testimonianze più attendibili e le pratiche che sono giunte fino al nostro secolo, per poter rintracciare la verità su un argomento così delicato e controverso.
Alla citata testimonianza del Della Marmora bisogna aggiungere quella quasi contemporanea del viaggiatore inglese William Henry Smyth, che nel suo diario di viaggio annotava: “In Barbagia vi era la straordinaria pratica di soffocare, in casi senza speranza, una persona morente.
Questo gesto veniva compiuto da una donna incaricata a ciò, chiamata accabadora, cioè colei che pone fine alla vita; ma l’usanza venne abolita sessanta o settanta anni orsono da Padre Vassallo, il quale visitò questi luoghi in qualità di missionario(2).
Poiché Giovanni Battista Vassallo, gesuita, soggiornò in Sardegna per cinquant’anni, dal 1725 al 1775, se ne deduce che, secondo le informazioni date da Smyth, la pratica era sicuramente in disuso intorno alla metà del XVIII secolo.

I diari dello Smyth portano la data 1826-27, anche se la pubblicazione appare nel 1828 e seppure egli avesse letto la notizia sulle accabadoras sarde nel Voyage del Della Marmora, che era stato pubblicato a Parigi nel 1826, non si può pensare che ne abbia riferito la notizia riprendendola di peso da quel libro senza fare ulteriori indagini personali.
L’informazione del Della Marmora, se ne era a conoscenza, gli potè servire solo per indagare sulla verità di una simile usanza, cosa che appare chiara dalla menzione che egli fa del Padre Vassallo.

Con tutta probabilità la notizia in Sardegna gli fu confermata da qualche amico, ma chi gliela fornì tenne a precisare che tale pratica era ormai in disuso da parecchio tempo, anche grazie alla continua predicazione ed evangelizzazione operata dal Vassallo.
Lo Smyth inoltre attribuisce questa usanza alla Barbagia e ciò genera il sospetto che chi lo informò volesse allontanare dalla propria zona e circoscrivere solo alla più conservativa e tradizionale dell’isola una pratica che invece era diffusa in tutta l’isola, come si evince non solo dalla testimonianza del Della Marmora, ma anche da quella che ne dà l’abate Vittorio Angius e varie altre persone che verranno successivamente menzionate.

Nel Dizionario di G. Casalis, alla voce Bosa, scriveva l’Angius nel 1833 (ma i dati aveva cominciato a raccoglierli sedici anni prima, e perciò è da presumere che egli fosse la prima persona a trattare di questo argomento): “Sas accabadòras. Viene questo vocabolo dal verbo accabare… Con esso si vorrebbe significare certe donnicciuole, che troncassero l’agonia d’un moribondo e abbreviassero le pene d’una morte stentata dando loro o sul petto o nella coppa con un corto màzzero (sa mazzucca), o tosto che sembrasse vana ogni speranza(3)

L’Angius si domanda se questa pratica possa provenire dal geronticidio che i figli praticavano anticamente verso i padri settantenni e conclude col dire: “… La memoria di queste furie è ancora fresca in Bosa, dove sostengono alcuni essere solamente intorno a mezzo il secolo XVIII cessata cotanta barbarie, sebbene per quanto è riferito da persone di molta etade e autorità debba allontanarsi ancor più dai nostri tempi“.
Ovviamente la notizia riportata dall’Angius non fu bene accolta da alcuni sardi che, se cercarono di ignorare le note del Della Marmora e dello Smyth, due stranieri ai loro occhi, i quali potevano prendere gusto nella pubblicazione di notizie ad effetto, non accettarono punto che di tali cose parlasse proprio un sardo, persona seria e colta, per di più appartenente al mondo della chiesa, giacchè una tale notizia, a loro avviso, non poteva che gettare discredito sull’isola.

Basta verificare a questo proposito le polemiche note di G. Pasella che apparvero contro l’Angius sulle pagine de “L’Indicatore Sardo” (N° 39, anno 1837 – N° 52. anno 1838.
La polemica suscitata tra gli intellettuali a proposito delle accabadoras e il volerne negare l’esistenza con argomentazioni diverse non sfuggì al Della Marmora, il quale era stato tirato o in causa a proposito della sua asserzione che aveva dato l’avvio a discussioni e opinioni varie.
Perciò nel 1839, quando egli pubblicherà la II edizione del suo Voyage forse per non innescare nuove polemiche su un argomento così scottante, cercherà di rendere più fluida l’affermazione fatta nella I edizione sostituendola con la frase: ‘‘Quanto all’uso di affrettare la fine dei moribondi, che si è preteso esistesse già nell’isola, dove ne sarebbero incaricate certe donne dette perciò acabadoras è veramente esistito?
O come è probabilissimo, si tratta d’una semplice tradizione popolare? Non saprei deciderlo, nonostante la polemica vivace che questo argomento ha destato di recente: il fatto è che ai nostri giorni non ne esiste traccia alcuna”.

La sua frase non pare dettata da dubbi o incertezze sull’esistenza delle acabbadoras, ma piuttosto dal desiderio di non rinnovare nuove polemiche su questo argomento.
A conferma di ciò riportiamo quanto egli scrive poco prima, nella stessa opera, a proposito della “couvade”.
ciò vale anche a dimostrare quanto questo autore si informasse accuratamente e come le sue affermazioni fossero frutto di serie ricerche: “Si è preteso che in certe parti della Sardegna regni ancora l’uso attribuito da Strabone ai popoli dell’Iberia…
Quando una donna partorisce, il marito, si dice, si mette a letto e riceve i complimenti dei vicini, mentre la puerpera attende alla casa e da al marito tutto quello che gli è necessario per riparare le sue forze. S’intende che ho dovuto fare le ricerche più accurate per scoprire la verità; e mi sono convinto che quest’uso non esiste più in Sardegna che nel Bearnese, dove si era detto d’averlo pure notato.
Il fatto è d’altronde così bizzarro e ridicolo, che sarei tentato di dubitare che si sia osservato tra i selvaggi dell’America”.

Viaggiatori giunti successivamente in Sardegna, quali il padre Bresciani e il Domenech, riferiranno, a proposito delle accabadoras, episodi di persone che già avevano avuto il sacramento dell’estrema unzione e che, avendo intravisto la figura de s’accabadora reagirono fortemente a quella vista tanto da guarire all’istante.
Ad un simile episodio accennava già V. Angius, ma vale la pena di riferire per tutti quanto scrive il padre Bresciani: “Essendo io in Sardegna mi venne udito più volte di questa barbara usanza: ed una vecchia gentildonna dicea d’aver conosciuto nella sua giovinezza un’avola antica, la quale narrolle ch’essendo essa ne’ diciott’anni la prese una malattia acuta che la condusse agli estremi. Avea già avuto l’ultimo sacramento e il prete le stava al capezzale; quand’ecco una fante entrarle in camera da un uscio che le stava di rimpetto, e vide a caso l’accabadora che in quell’anti camera attendea, se uopo vi fosse, di soffocarla per cortesia d’accorciarle il patimento. E assicurava che a quella vista fu si forte e si subito il brivido e l’orrore che le corse nel sangue, che il male diè volta in una felicissima crisi di sudore, e fu guarita” (4).

L’episodio che il padre Bresciani racconta si potrebbe considerare una testimonianza indiretta dell’esistenza de s’accabadora anche se egli non la dà per certa, per quanto sembri propenso a credervi. Conclude col dire: “Ad ogni modo se tal costume fu in vero nell’Isola. non può essere di fresca origine. A me fa non lieve senso il nome d’accabadora, dato a coteste pretese sacerdotesse della morte; imperocchè il nome suppone il soggetto, e non suoi essere natural accidente che si crei un nome si crudele senza cagione”.

Non risolve il dubbio neppure l’Alziator che scrive: “le affermazioni dello Smyth e dell’Angius sarebbero piuttosto l’eco di una tradizione popolare o di qualche caso endemico sopravvissuto nei secoli e perciò ignorato dalla Chiesa o per lo meno da quella ufficiale dei Concili.
Questi ci paiono i veri termini della questione per la quale, allo stato attuale delle ricerche, ogni soluzione è pur sempre incerta: si tratta di una tradizione ellenica di origine culturale o di una tradizione popolare, eco di una reale usanza?’ (5).
Alcuni anni prima anche il Toschi aveva avanzato dei dubbi:
“Molto dubbia appare l’asserita esistenza in alcuni paesi della Sardegna delle accabadoras (6). Con tono più sicuro si esprime Robert Tennant, ma è evidente che egli non riferisce notizie di prima mano, ma si rifà all’Angius accomunando il geronticidio con l’eutanasia: “I figli non mettevano in pratica loro stessi questo terribile gesto, ma delegavano persone adatte, chiamate Accabature. Che venivano professionalmente impiegate per lo scopo. I sardi di oggi dubitano persino che l’usanza sia mai realmente esistita… “ (7).
Normalmente si è sempre sentito parlare di donne accabadoras, qualche scrittore però parla anche di uomini (Edwards, Tyndale). Lo Spano include il termine nel suo vocabolario solo al femminile. Egli, senza alcun commento, si limita a scrivere: Accabbadoras, ucciditrici. uccidenti, e fa derivare il verbo accabbare dal fenicio ed arabo hacab = por fine.
Alcuni si domandano come mai i sinodi sardi, se la pratica fosse veramente esistita, non ne fanno cenno nelle loro prescrizioni. La risposta la dà lo stesso abate Angius quando polemizza col Pasella, spiegando che le leggi sinodali denunciavano degli errori solo i casi comuni e frequenti e che pertanto, se si fosse venuti a conoscenza di qualche fatto fuori dalla norma ci si poteva regolare con una interdizione dai sacramenti o con la minaccia di scomunica verso la pazza e snaturata donna che avesse messo in atto una simile pratica.
D’altra parte doveva trattarsi di pratiche segretissime. consumate nel chiuso delle abitazioni; con molta probabilità non ne venivano informati neppure tutti i membri della famiglia, ma solo le persone più propense a porre in atto una simile tra dizione.
Secondo l’ideologia corrente tale atto doveva essere considerato un servizio richiesto e offerto a scopo umanitario, fatto a fin di bene, per abbreviare le sofferenze del moribondo.
La tradizione popolare di Baunei ricorda le accabadoras attraverso il villaggio di Eltili i cui abitanti, nel XVIII secolo, morirono di peste. L’unica donna superstite, di nome Maria, per non rimanere sola andò a sistemarsi nel luogo ove ora sorge il rione di Monte Colcau, a Baunei. Scrive a tale proposito A. Usai: “La popolazione accolse Maria Eltili con una certa diffidenza perchè era stata diffusa la voce che non rosse battezzata e che nel suo paese avesse fatto s’accabadora per porre fine alle sofferenze degli appestati che si dibattevano tra la vita e la morte” (8).
La tradizione lascerebbe intendere che la parte della popolazione più cristianizzata fosse riuscita a debellare s’accabadura e che questa resistesse solo tra le persone che, pur con etichetta cristiana, ancora praticavano costumi pagani. A debellare molti di questi costumi, che ancora resistevano nel popolo, indubbiamente contribuito il concilio di Trento col rinnovamento della chiesa cattolica.
Quanto buona parte del clero fosse ignorante e quindi non in grado di illuminare chiaramente i credenti su certi argomenti, io sappiamo da ciò che scrive nei XVI secolo un intellettuale sardo, Sigismondo Arquer, ma anche da vari documenti dell’epoca. Sintomatica a questo proposito la relazione che l’arcivescovo (li Cagliari. Antonio Parragues de Castil]ejo, fa nel gennaio del 1560 al re di Spagna, lamentando le con dizioni della maggior parte del clero sardo: “…ninguna noticia tienen de la ley de Dios, ni de la ley de iglesià, no saben ensenar los parrochianos mas del Pater Noster, y el Ave Maria y la confession general en Sardesco. tanto que yo tengo por milagro como Dios los conserva en el Christianesimo” (… non conoscono la legge di Dio, nè la legge della chiesa, non sanno insegnare ai parrocchiani altro che il Padre Nostro, l’Ave Maria e la confessione generale in sardo, tanto che a me sembra un miracolo come Dio li conserva nel cristianesimo) (9).
Se questa era la situazione pressoché generale in tutta la Sardegna, non meraviglia che certe pratiche potessero in quel tempo essere ancora diffuse e forse non considerate di somma gravità. Una conferma su questo punto potrebbe venire dal fatto che molte persone riferiscono che durante la prolungata agonia al moribondo venivano tolti gli oggetti sacri che teneva indosso (medagliette, scapolari, reliquie), perché tali oggetti impedivano all’anima di uscire dal corpo Altri aggiungono che bisognava spogliare delle immagini sacre anche la stanza in cui giaceva l’agonizzante, quasi a sottolineare, inconsciamente, che per abbreviare l’agonia con la vecchia pratica. tutto ciò che apparteneva al cristianesimo doveva scomparire.
Scrive a questo proposito l’Angius: “Levansi via dalla stanza croci e simulacri e immagini e viene egli spogliato, quando abbiane degli scapolari sacri di qualche ordine religioso e delle scatolette che abbiano qualche reliquia. Tanto perché? Perché si crede che esse valgano ad impedire l’anima dalla partenza e prolungare le sue sofferenze. Ove poi in breve non estinguasi il loro carissimo, si viene al rimedio che stimasi per efficacia supremo e sottopongono e adattano alla,di lui cervice il giogo di un aratro o di in carro” (10).
L’Angius parla di una tale consuetudine superstiziosa riferendosi alla diocesi di Cagliari, ma la pratica era còmune a tutta la Sardegna.
Ad Orgosolo si credeva anche che se una persona non riusciva a morire doveva avere indosso “su puntu ‘e sa duminiha”, cioè negli indumenti che portava indosso doveva esservi qualche cucitura fatta la domenica delle palme, quando le donne si cucivano all’interno dell’orlo delle gonne e delle sottogonne, entro la chiesa stessa, delle striscioline di palma benedetta. Per questa ragione era necessario spogliare completamente il sofferente. Ma il rimedio maggiore era considerato da tutti, come afferma l’Angius, il giogo di un aratro o di un carro. Tale strumento doveva avere una valenza particolare.
Durante alcune mie ricerche fatte diversi anni orsono in numerosi paesi. ho potuto constatare che quasi tutte le persone di una certa età erano a conoscenza di questa pratica. Precisavano anche che il giogo doveva essere trattato con un rispetto “religioso” e che non si doveva mai bruciare. Secondo alcuni l’agonia prolungata era data proprio dal fatto che il moribondo si era macchiato in vita del delitto di aver bruciato un giogo. Ad Urzulei si diceva: “Se il giogo è vecchio e inservibile si sistema in un angolo, dietro la porta, e si lascia lì. Non si deve mai mettere al fuoco. Un tempo, quando una persona stentava a morire si metteva il giogo sotto la testa” (11). La stessa cosa si afferma ad Orgosolo, Benetutti, Bitti, Oliena, Orotelli, Mamoiada, Dorgali (12). A Sarule si aggiunge: “Se un individuo si dibatteva a lungo tra la vita e la morte si prendeva il giogo, su juvale si segnava il moribondo, gli si faceva baciare lo strumento che poi si metteva sotto la sua testa.
Quando l’individuo moriva si metteva su juvale sotto il letto con due spiedi incrociati (13). Uguale affermazione si fa ad Ollolai. La stessa usanza vi era anche in Baronia. A Siniscola si precisa: “Su juale era considerato un oggetto sacro… Si diceva che un uomo che buttava o bruciava il legno appartenuto ad un giogo, ai momento della morte soffriva molto ed aveva agonia lunga. Quando si vedeva che un uomo stentava a morire, gli facevano baciafe il giogo e dicevano delle preghiere per liberarlo dal sacrilegio che poteva aver commesso durante la sua vita bruciando il legno di un giogo. Ancora oggi molte persone se vedono un giogo buttato in campagna non io toccano, per paura di commettere sacrilegio” (14).
Un’altra testimonianza attendibile ci viene dal mondo della chiesa: Quand’ero parroco a Sìndia mi è capitato diverse volte, mentre davo il sacramento dell’estrema unzione,di vedere sotto il guanciale di qualche moribondo il giogo dei buoi.
Lo rimproveravo le donne che facevano questo, ma loro erano convinte che con quello strumento al collo l’agonizzante non avrebbe sofferto a lungo. Ho visto fare ciò anche a Sedilo” (15).
In molti paesi si afferma che su juvale veniva usato anche per facilita il parto e per proteggere il bimbo dalle surbiles. In questo caso lo si metteva sotto il letto o dietro la porta (Ollolai, Orgosolo, Benetutti, Oliena, Bitti, Tanaunella). Evidentemente gli si attribuivano anche poteri apotropaici, ma è chiaro che tale strumento presiedeva alla nascita e alla morte degli individui.
L’efficacia del giogo per evitare la lunga agonia è evidente anche attraversoa alucni detti popolari. Il Ferraro raccolse nel secolo scorso, a Siniscola, questo indovinello: ‘Duos montes paris paris, / duas cannas treme treme, / si lu pones in cabizza, / prus lestru ti nde moris (Due monti pari pari, due canne che tremano, se lo metti sotto la testa, muori più rapidamente). Ovviamente la risposta era: su juale
Il Feraro riferisce in nota. “Questa è una superstizione dei contadini di molti luoghi in Sardegna, cioè che chi ha lunga agonia, non pode’ morrer si non bi pònini in cabizza unu juale” (16).
Ad Oliena, come pure in altri paesi, si insiste molto sul fatto che se una persona ha una prolungata agonia è necessario allontanare tutti i familiari dalla stanza, perchè questi col loro affetto impediscono all’anima di staccarsi dal corpo. Qualcuno crede che anche gli oggetti di valore che si conservano nella stanza dell’agonizzante ne impediscano la dipartita (17).
L’allontanarneno dei familiari, indispensabile perchè il moribondo possa terminare la sua agonia, ingenera il sospetto dell’effettiva esistenza de s’accabadora la quale, ovviamente, non avrebbe potuto eseguire la sua operazione di morte davanti ai familiari che certo non sarebbero rimasti impassibili, anche comprendendone la necessità. Perciò tutti dovevano uscire dalla stanza.
E’ da supporre che un piccolo colpo alla nuca, dato da persona esperta, provocasse la morte istantanea, sia facendo battere la testa contro su juale, sia adoperando su mazzuccu, come si vuole in qualche località. Ma è anche da supporre che qualche volta l’operazione non fosse così celere e che all’agonizzante sfuggisse qualche lamento.
Scrive M. Pittau a proposito di Orotelli: “.. esiste un significativo e chiaro relitto linguistico nella imprecazione fatta a chi dice “ohi!” di lamento, che suona: “su ohi de s’accabbadore” = “l’ohi provocato dall’accabbadore” , insomma, l’ultimo lamento del moribondo colpito o soffocato dall’accabbadore (18).
C’è da aggiungere che in alcune località, quando si voleva maledire una persona si diceva:”sa ‘e s’acabadora ti dian!”volendo in tal modo augurare una morte difficile, che comportasse l’intervento de s’accabadora.
Già nel XVII e XVI1I secolo ben poche dovevano essere le donne che si prestavano a questa operazione e se presso una comunità non vi era nessuno disposto a tale servizio. con tutta probabilità ci si rivolgeva a qualcuno della comunità vicina, come sembrerebbe di capire dalla tradizione popolare di Orotelli.
Scrive ancora M. Pittau: “Su questo argomento io mi limito a segnalare che ad Orotelli esiste ancora il lontano ricordo delle accabbadoras fatte venire per l’occorrenza da Ottana”.
Ad Ottana si dice anche che se un moribondo aveva un’agonia difficile era segno che aveva bruciato un giogo oppure rimosso il confine del vicino; in tal caso, per accelerare la fine era necessario un giogo oppure alcune pietre.
Secondo alcune testimonianze raccolte a Samugheo da Gigi Deidda, gli oggetti potevano essere anche altri: “Quando un uomo restava per parecchi giorni in penitentzia de morte, i parenti pensavano che il loro congiunto un tempo si fosse impossessato indebitamente di qualche attrezzo agricolo. In questo caso, per accelerarne la dipartita ed evitare lunghe sofferenze lo si metteva a contatto con alcuni attrezzi agricoli.
Era preferito su juale, ma anche altri potevano andar bene al caso: sa marra. su marrone, s’abrada.
‘Mio marito, afferma un’informatrice di Samugheo, tanti anni fa portò a casa una zappa nuova, unu marrone , che gli sarebbe servito per lavorare la vigna. un vicino di casa venne a chiedermelo in prestito per un paio d’ore. Visto che non lo restituiva, l’indomani andai a riprenderlo e mi sentii rispondere che l’aveva riportato la sera stessa e messo nel mio cortile. Non era vero. Quando raccontai a mia suocera l’accaduto lei sentenziò:jai chi che dd’at furau, chi ddu prangat in sa morte” (Giacchè l’ha rubato, che possa espiare (il furto) durante la morte).
Diversi anni dopo quell’uomo entrò in agonia e vi rimase parecchi giorni, fino a quando non gli fu messo vicino al capezzale unu marrone (19).
Due persone assicurano di aver visto fare questa operazione alla fine degli anni ‘30. (20), ma le persone più vecchie ricordano d’aver sentito dire che un tempo, per fare questa pratica, veniva chiamata una donna che era solita fare le “medicine”. Per prima cosa questa incumandavat s’animaa Deu dell’agonizzante, poi rimaneva sola con lui e quando usciva dalla stanza. il moribondo era già passato a miglior vita” (21).
Rubare gli attrezzi agricoli doveva essere considerato un reato gravissimo, una specie di sacrilegio, come rubare entro una chiesa.
Alle testimonianze samughesi, che rimanderebbero all’8OO le ultime accabadoras bisogna aggiungere la testimonianza di Mons. Raimondo Calvisi che riferisce G. Della Maria:
“Le confermo che, a Bitti, intorno al 1906, sono stato testimone del seguente fatto: Nei pressi di casa mia, un bimbo era in agonia da oltre tre giorni, quando si presentò alla madre del morente una vecchia dall’aspetto duro ed energico, alta e segaligna. La vecchia si offrì, decisa, alla madre per abbreviare l’agonia del piccolo sofferente. La madre non si stupì della cosa, ma rifiutò dicendo: “Cherzo chi si guadagnet su chelu” (Desidero che si guadagni il cielo). Da queste parole ebbi la chiara conferma che la sinistra vecchia fosse una superstite accabadora” (22).
Comunque. anche se dal 700-800 s’è posto fine ad una accabadura concreta, non altrettanto si può dire di un’accabadura magica che si è continuata a praticare fino ai primi decenni di questo secolo.
“A Tanaunella una donna non riusciva a morire. Allora prepararono un piccolo giogo, di circa 20 cm, e glielo misero sotto il capezzale pensando che durante la sua vita avesse bruciato un giogo. La donna morì subito dopo” (23).
“A Buddusò, se uno tardava a morire, si preparava unu juvaleddu e lo si metteva sotto il cuscino del moribondo” (24).
L’operazione diventa sempre più simbolica e il pesante giogo dei buoi viene sostituito da piccoli gioghi e man mano che ci si avvicina ai nostri giorni tende sempre più a miniaturizzarsi. fino a diventare un gingillino, utilizzabile solo in senso del tutto magico. Ad esso si continuarono a conferire poteri eccezionali nonostante le sue minuscole dimensioni. Perchè questo oggetto potesse avere la sua efficacia bisognava però prepararlo in un momento particolare: la domenica delle palme (in alcuni paesi il giovedì santo), in chiesa, mentre si cantava il passio. vale a dire nel momento in cui si commemorava la passione di Cristo e il suo trapasso dalla vita alla morte.
Molti vecchi ricordano di aver eseguito in gioventù questa operazione.
Si andava in chiesa portandosi appresso un rametto d’olivo o (l’olivastro, e mentre veniva cantato il passio, molti uomini estraevano dalla tasca sa lesorja e intagliavano rapidamente jualeddos,coreddos e ughitta (piccoli gioghi, cuoricini e crocette). Alcuni di questi oggetti venivano portati nella vigna e negli orti ed ivi deposti in ogni angolo, per proteggere le piante dal malocchio. Coreddos e rughittas si davano anche alle fidanzate o alle mogli, che li tenevano sempre indosso come amuleti, soprattutto perché venisse il latte abbondante e sano. La funzione de sos juvaleddos ci è nota.
Si è tentati di credere che l’usanza fosse tipicamente sarda. Certe credenze avevano invece una diffusione che oltrepassava di gran lunga i confini della Sardegna. Scrive P. Toschi: “E’ stentata l’agonia di chi in vita abbia spostato un termine, cioè la pietra di confine del campo o bruciato un giogo (Abruzzo, Romagna, Sardegna), e si rimedia ponendo sotto il capezzale rispettivamente una pietra o un giogo nuovo. in talune regioni della Francia il giogo si pone al di sopra della testa del moribondo” (25). Per quanto riguarda la Sicilia scrive il Pitrè: “Dove il ritardo sia troppo (durante l’agonia), si sospetta di qualcosa di soprannaturale. Avrebbe egli o ella, quand’era in salute, bruciato il giogo di un aratro? Ma allora bisogna porre al capezzale una matassa di filo di lino non ancora lavata. Avrebbe forse ucciso un gatto? E allora bisogna gridare il nome dell’agonizzante in sette letamai… 1 gatti hanno sette spiriti e tutti e sette passano nel gatticida.. (26).
L’area si allarga e le notizie diventano più interessanti se si esaminano alcune prescrizioni della Chiesa bolognese. Nell’Episcopale del Cardinale Paleotti del XVI secolo si legge: “il ponner il giogo delli buoi sopra l’infermo presso alla morte, acciò lo faciliti ad uscir di quell’agonia, non sta bene in modo alcuno… Nè si conviene scoprire il tetto della casa alquanto, pensando che altrimenti non uscirà l’anima da quel corpo agonizzante’ (27). C. Corrain e P. Zampini ci informano anche sull’Editto LI, in appendice al sinodo di Benevento del 1723: “Il mettere la pietra sul capezzale del moribondo, affinché subito muoia, mentre vedendo gli astanti l’agonia esser lunga hanno per indubitato, che egli abbia in vita scavato e rimosso qual che termine divisorio ne confini de’ territorii. e che per questo riguardo si prolunghi l’agonia”. La credenza era molto forte in Calabria e particolarmente sull’Aspromonte: ‘secondo l’inveterata tradizione, muore in peccato colui che brucia un giogo e sposta i termini limitari del fondo altrui o ammazza un gatto, e perciò l’anima sua non può staccarsi dal corpo in ambascia, se non intende- ne un atto espiatorio. E l’espiazione consiste nel porre sotto il letto o presso il capezzale un felino o un giogo, che in alcuni luoghi è una minuscola riproduzione del vero e pesante giogo, conservata per tali circostanze” (28).
Anche in Barbagia. in Ogliastra e in Baronia qualcuno fa cenno al gatto e a ciottoli di fiume da sistemare al capezzale dell’agonizzante,
segno che certe credenze erano comuni ad una vasta area che sembrerebbe riguardare in particolar modo l’italia Centro Meridionale e insulare.
Più estesa appare però la pratica del giogo, che si conosce anche in Francia. La sacralità di questo strumento che presiedeva alla vita e alla morte, come affermano quasi tette le testimonianze, sembra evidente, ti giogo era presente sia quando l’individuo faceva il suo ingresso nella vita, sia quando che questa doveva uscire. La sua presenza, quale simbolo di un’antica religione, sembrerebbe essere in rapporto con s’accabadora. Questa sacerdotessa della morte, con tutta probabilità, ne veniva posta in relazione durante l’agonia, se il morente si era macchiato in vita di qualche atto sacrilego. In tal caso solo il suo intervento poteva accabare cioè por fine alle sofferenze che al momento del trapasso servivano da espiazione. Non è (la escludere che la presenza del giogo significasse anche una sorta di simbolica umiliazione e sottomissione alla divinità che lo rappresentava.
La presenza del gatto al capezzale dell’agonizzante è da ricercare nel significato simbolico che questo animale ha in alcune culture. Sappiamo quanto la Sardegna sia stata crogiuolo di civiltà diverse che in essa si intrecciano e si compenetrano.
In Egitto chi uccideva un gatto veniva condannato a morte. perchè sotto le spoglie del gatto si nascondeva Iside-Bastet, la grande divinità di bubastis, che aveva sette spiriti e quindi sette vite. Ancora c’è chi afferma in Sardegna che il gatto ha sette anime.
Un atto sacrilego gravissimo era il furto nei santuari dell’olio offerto per i lumi e della cera data come ex voto. Anche questo tipo di furto, se non scoperto e punito all’istante, si sarebbe pagato al momento della morte con una prolungata agonia e, conseguentemente, con l’intervento de s’accabadora A Benetutti si diceva che. se un individuo rubava l’olio, quando moriva no li supriat ozu santu, se rubava la cera no li supriat chera e istet morzende chena morrere.(29).Che la frase sottintendesse il furto dai santuari campestri, che solitamente restavano incustoditi, della cera e dell’olio che venivano offerti alla divinità, si desume dalla spiegazione che si dà a Samugheo quando si domanda perchè rubare la cera e l’olio era più grave che sottrarre un altro prodotto:”ca furant sa lughe de Deu”(perchè si rubava la luce di Dio) è la risposta (30).
Il delitto era quindi tanto grave che al momento della morte al sacrilego “no li supriat ozu santu e no lisupriat chera “ vale a dire che neppure l’olio santo nè i ceri riuscivano a sopperire, a colmare la gravità di quel peccato. In alcuni paesi anche rubare gli alveari, sos mojos, era considerato un reato assai grave, che si sarebbe scontato con una lunga agonia. Ma probabilmente non si trattava tanto degli alveari quanto della cera che essi contenevano e che in buona parte veniva offerta alle chiese.
Nel mondo cristiano la funzione di agevolare il trapasso era affidata ai ceri accesi. Lo evidenzia il Pitrè nell’opera citata: “Ad ottenere al morente una buona agonia ed un buon passaggio, la cristiana devozione dei congiunti accende nella sua stanza candele di cera benedette nella festa della Candelora”.
Un altro grave furto era quello della proprietà privata. Spostare una pietra che segnava un termine di confine non significava solo portar via qualche palmo di terreno al vicino, quanto piuttosto rubare le messi clic si trovavano seminate in quello spazio. quindi sottrarre il pane al lavoratore. Così 1ire impossessarsi di attrezzi agricoli come la zappa o il vomere d’un aratro nei tempi in cui un pezzo di metallo costava tanto, significava togliere al contadino gli strumenti del lavoro, con grave pericolo per la sopravvivenza della sua famiglia.
Solo un terrore ancestrale, inculcato per millenni, poteva trattenere certe persone da simili furti. E nulla poteva essere più temuto della prolungata agonia che lasciava giorni e giorni il sofferente tra la vita e la morte. Quindi è da ipotizzare che non il timore di un giudizio divino nell’al di là era la cosa di cui si aveva più paura, ma la punizione concreta, tangibile, da pagare in questa vita al momento del trapasso che si sarebbe concluso con l’intervento de s’accabadora.
In ogni caso è da presumere che questa figura non fosse esclusivamente sarda, visto che certe credenze appartengono ad un’area ben più vasta di quella isolana.
Dall’esame del quadro complessivo si può dedurre che esisteva un rapporto tra alcune azioni considerate sacrileghe, la prolungata agonia e l’intervento della sacerdotessa della morte.
Che anticamente s’accabadora potesse essere veramente una sacerdotessa sembrerebbe confermarlo il fatto che in molti paesi quest’atto veniva compiuto dalla stessa donnetta cui la comunità si rivolgeva per guarire i mali con le sue formule magiche., per togliere il malocchio ai bimbi e al bestiame grasso, per tutelarsi dagli influssi malefici, per scoprire i furti e per indicare dove stava nascosto il bestiame rubato. Insomma, per tutte quelle azioni per le quali in tempi lontani si andava presso gli oracoli.

Pubblicato nella rivista semestrale “SARDEGNA ANTICA” del 1° semestre 1993

Di Dolores Turchi

NOTE
1) A. Della Marmora voyage en Sardaigne de 1819 a 1825. Paris 1826.
2) W.H I. Smith, Sketch of the present state of the island of Sardinia, London 1928.
3) V. Angius in casalis, Dizionario geografico,storico statistico degli Stati di S.M. il re di Sardegna, Torino.1833.
4) A. Bresciani, Dei costumi dell ‘isola di Sardegna. Bologna, 1850.
5) F. Alziaror. Il folklore sardo, ed. Dessi, Sassari, i 978.
6)P, Toschi, Il Folklore,Universale Stadium, Roma, 1960.
7) R Tennant, Sardinia and its resources, london, 1885.
8) A. Usai, Baunei, Ed. Fossataro, 1976.
9) P. Onnis Giacobbe, Epistolario dì Antonio Parragues de castillejo, 1958. Vedi G. Sorgia, Due lettere inedite sulle condizioni del clero e dei fedeli in Sardegna nella prima metà del secolo XVI, Studi religiosi sardi, Padova, 1963.
10) V.Angius, op. cit.
11) lnf. Salvatore Mulas, anni 91.
12) Diana Delogu, anni 80; Narcìsa Pulighe, anni 55; Rosa Cannas, anni 92; Grazia Pani, anni 99; Luigi Marteddu, anni 86; C.aterina Piras, anni
80) Francesca Beccone, anni 79.
13) Inf Piredda Monserrala , anni 81; Giuseppa Coi anni 83.
14) Da una ricerca effettuata nel 1981 dalle allìeve dell ìns. Luiselia Sezzi.
15) Inf Mons. Giuseppe Masia, anni 80.
16) G. Ferraro, canti popolari in dialetto logudorese, anno 1891, Fornì, Bologna, 1980.
17) Cfr.M. Salis. Geronticidio ed eutanasia , in l’Ortobene 1/l1/92.
18) M. Pittau in ‘L’Africa romana”, Atti dell’VIII convegno di studio. Gaglìari, 1990.
19)Inf A. M. Mereu, anni 80.
20) Sarai Maria Rita, annni 72; Sanna Giovanni anni 74,
21) Da una comunìcazione scritta di G. Deidda, Samugheo. inf. Mugheddu A. Maria, annì 85; Tatti Giovanni, anni 93, Samugheo.
Una testimonianza recente su Orune e riportata da M.G. Cabiddu ‘Akkabbadoras; riso sardonico e uccisione dei vecchi in Sardegna” in Quaderni
Bolotanesi, anno XV, 1989.
22)Cfr. G, Della Maria, Sas accabadoras, in Nuovo bollettino bibliografico sardo, n 28 .1960.
23) lnf. Ventroni M. Giuseppa. anni 88 Ventroni Luigia, anni 84.
24) lnf Bacciu Giuseppa. anni 68.
25) P Toschi, Il folklore, Ed. Studium, Roma, 1960.
26)G. Pitrè, Usi e costumi. credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo. 1978.
27)Alcune cose per memoria dei Roveren. curati di Bologna, trattate nella congregazione fatta in Vescovado alIi 24 d’ottobre 1577.
Cfr.C.Corrain.P. Zampini,Costumanze superstiziose bolognesi rilevate nel diritto ecclesiastico locale, Cesena, 1971,
28) C. corrain-P. zainpini, Documenti etn. e folk. nei sinodi diocesani dell’italia Meridionale, Rovigo, 1966.
29Inf. Narcisa Puliche,. anni 55.
30) Inf, Mura Gerolamo. anni 94.