La parola pana, come ha dimostrato V. Diòszegi, è un termine manciutunguso e significa anima-ombra.
Talvolta i familiari delle donne che morivano di parto lavavano per sette anni consecutivi un camicino o una fascia di neonato e la mettevano ad asciugare, credendo di alleviare in tal modo la pena della defunta anche perchè, se la pana veniva interrotta durante il suo lavoro, era costretta a ricominciare da capo, per altri sette anni, divenendo in tal modo uno spirito nocivo. Alle donne morte di parto si metteva perciò dentro la bara un pezzo di tela, un ago, un filo non annodato, un paio di forbici, un pettine e un ciuffo di capelli del marito, in modo che avessero l’occorrente per cucire gli indumenti del loro bimbo. In questa maniera, avendo un lavoro da eseguire, non sarebbero andate in giro durante la notte. Provvista di questi oggetti la pana avrebbe potuto rispondere alle compagne che la invitavano ad andare lungo i corsi d’acqua insieme a loro: “Non posso perchè sto cucendo; Non posso perchè sto pettinando mio marito“.
L’uso di mettere oggetti nella sepoltura è denunciato da vari sinodi sardi che sempre hanno vietato simili pratiche. Ma la consuetudine doveva essere ben radicata. Gli oggetti avevano lo scopo di trattenere la defunta nella tomba, non solo per evitarle la pena di vagare sulla terra per sette anni, come generalmente si credeva, ma soprattutto perchè si aveva paura di questi spiriti che sarebbero andati a molestare le altre puerpere, gelose dei loro bambini ai quali avrebbero tentato di nuocere.
[…] A Orotelli, per liberare la pana dalla sua fatica si procedeva in modo diverso: quando una donna moriva di parto i familiari riscattavano la sua anima dal notturno vagare lungo i corsi d’acqua incaricando delle donne esperte (che non erano semplici lavandaie, ma persone esperte in certi rituali) di lavare la biancheria di nove puerpere che avevano felicemente dato alla luce il loro figlio. Naturalmente tale lavoro doveva essere portato a termine dalle stesse persone che lo avevano iniziato, così come il lavaggio doveva avvenire sempre presso lo stesso corso d’acqua.
Chi si offriva per questa operazione non doveva guardare l’acqua quando cominciava il suo lavoro, ma volgere le spalle al ruscello in modo da gettare il primo panno dietro di sè, tenendo gli occhi chiusi e senza proferire alcuna parola. Doveva insomma comportarsi come se lei stessa forse lo spirito della defunta.
Nelle case in cui queste donne prelevavano la biancheria sporca non dovevano accettare alcun compenso, neppure un bicchiere d’acqua. A dar loro le cose di cui avevano bisogno dovevano invece provvedere i familiari della puerpera morta che con questo incarico credevano che la defunta potesse trovare pace nell’oltretomba.
Tale rituale, pervenuto fino ai nostri giorni, rimanda a tempi antichissimi. La gestualità di chi eseguiva questo lavoro volgendo le spalle all’acqua, tenendo gli occhi chiusi e non parlando, rivela chiaramente che in quel momento la persona che lavava si sostituiva alla pana eseguendo in sua vece il lavoro. Gettare nell’acqua il primo indumento volgendo le spalle al ruscello significava lasciarsi alle spalle la vita precedente, non ricordare più il passato e pertanto allontanarsi per sempre dalla terra. Per la stessa ragione non si doveva accettare nessun compenso dalla puerpera viva per il servizio ricevuto. Questo tipo di lavoro non doveva essere sottoposto a mercificazione di alcun genere, non dovendo esservi alcuna relazione tra la pana e la puerpera viva.
Il riscatto della pana dal suo crudele destino di lavandaia era praticato anche a Benetutti. Secondo quanto riferisce F. Alziator, bastava che due donne si recassero a lavare i suoi panni, ma queste dovevano percorrere in silenzio la strada che portava al ruscello e, sempre in silenzio, eseguire il lavaggio.
Ancora del XIII secolo certe frange del clero francese ritenevano impure le donne morte di parto, accogliendo la credenza popolare secondo cui il loro spirito era destinato a vagare nella notte e a divenire malefico e pertanto si tendeva a non dare loro una sepoltura cristiana. Ce lo dice chiaramente un antico sinodo di Liegi del 1287: “Se una donna muore di parto non le si neghi nessun diritto alla cristianità, ma sia portata in chiesa e sepolta nel cimitero…giacchè non dobbiamo trasformare in colpa la sua pena…“.
Un sinodo di Ales e Terralba del 1566 più esplicito nella descrizione delle panas o pantamas: “Il rito superstizioso di ripulire (la casa) dagli spettri che i Sardi chiamano Pantamas…sia proibito ed estirpato…e per primo il superstiziosissimo rito che in sardo viene detto “de incresiari in domo”, per cui la casa deve essere purificata dal sacerdote con una candela accessa e con la recitazione dell’evangelo e deve essere cosparsa di acqua benedetta. Di tale rito si abusa dovunque abbia partorito qualche donna, credendo alle Pantamas del parto, cioè a certi spettri nocivi che appaiono e vagano nella medesima casa e non si possono scacciare se non con quella purificazione, restando ivi per sempre e procurando grandi molestie ai familiari“
Da questi documenti sembrerebbe che panas-pantamas e cogas-sùrbiles rappresentino gli stessi spiriti che molestavano puerpere e neonati forse riconducibili alla mitica Lamia, regina della Libia, amata da Zeus, alla quale Hera fece morire tutti i figli. Secondo la mitologia greco-romana Lamia impazzì per il dolore e si moltiplicò in tanti spiriti che la notte vagavano penetrando nelle case e succhiando il sangue dei neonati. Ma mentre le panas sono ritenute spiriti di donne morte, le cogas-surbiles si credeva fossero spiriti di donne vive che temporaneamente abbandonavano il loro corpo per rientrarvi prima dell’alba.
Lo sciamanesimo in Sardegna, Dolores Turchi