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Le maledizioni di preti e frati in Sardegna

Le tante leggende legate a maledizioni scagliate da preti e frati, spesso cacciati da conventi e villaggi, come acutamente sottolinea Dolores Turchi (in G.Deledda, Leggende sarde) 1, “…ebbero probabilmente origine dall’incameramento dei beni ecclesiastici d parte dello Stato…”.

Così, attorno a compressi avvenimenti di natura politico-religiosa, che certamente il popolino non poteva comprendere, si costruivano ipotesi fantasiose che si sposavano perfettamente con il mondo magico e superstizioso a cui il popolo sardo (e villacidrese in particolare) ha sempre dato ampio credito. Se è vero (come riteniamo) che la religiosità dei Sardi non è mai stata disgiuntala antichissime forme di animiamo pre-cristiano, paganeggiante e, giova ancora ripeterlo, assai sensibile alle fattucchierie, alle mazine, alle superstizioni, in un intreccio profondo di attrazione-repulsione per il sacro, si può capire come abbiano potuto nascere e alimentarsi certe dicerie, certe leggende che trovano, ancora oggi, credito e sostenitori.
Una delle più diffuse leggende legate a frati e preti è quella che ricorda la cacciata di alcuni di questi, con conseguente maledizione scagliata al paese e ai suoi abitanti del tempo e dei tempi futuri. Ne La scomunica di Ollolai 2 i frati Minori Osservanti, cacciati dal borgo a seguito di un presunto delitto da loro effettuato (fu ritrovato nel pozzo dell’orto del convento il cadavere di un bambino), “…prima di andarsene scagliarono le loro più formidabili scomuniche sugli abitanti del villaggio e sui loro discendenti. Infatti, da allora in poi, la maledizione gravò su questo villaggio: le pestilenze, le carestie, le disgrazie più inaudite piombarono in ogni tempo su di esso, e ciò non bastando, gli abitanti, rosi dagli odi e dalle inimicizie più funeste, si dilaniarono tra loro, massacrandosi a vicenda. Due soli giorni dopo la partenza (correva l’anno 1490) scoppiò a Ollolai un violentissimo incendio che distrusse tutte le case”.

Nel volume citato è presente anche la leggenda di Madama Galdona: “Pare ci fosse a Sassari una ricca dama, molto pia e devota, chiamata Madama Galdona, la quale, venuta a morire, lasciò un suo possedimento ai frati di non ricordo più quale ordine. Spossessati questi dei loro beni dal Governo, si dice, sparsero la scomunica sul podere. E infatti tutti coloro che l’acquistarono, uno dopo l’altro, subirono molte disgrazie”.
Un altro caso, riportato sempre da D.Turchi, è quello della scomunica di Oliena 3, di cui scrive il canonico G.Spano: “Nella Cancelleria Arcivescovile si trova una curiosa Bolla di Clemente XIII, in data 3 ottobre 1762, dove assolve il popolo di Oliena da qualunque occulta scomunica perché erano alcuni anni che avevano avuto cattivi raccolti, e perciò erano ricorsi al Papa per assolverli da qualche occulta scomunica, estendendola anche ai morti”.
Ma qual era questa occulta scomunica? Nella pubblicazione citata ne viene svelata la genesi: “Un nobil uomo di Oliena aveva attentato alla vita di un vescovo, che per lunghi periodi era solito soggiornare nella dimora dei gesuiti, sparandogli tre colpi di fucile. I fori lasciati dai proiettili si vedono tuttora intorno ad una delle finestre al primo piano del convento. La ragione della sparatoria? Il vescovo aveva rifiutato la mano della propria sorella al focoso signorotto olianese. La popolazione si mostrò ostile al prelato e per punizione il paese ebbe una scomunica che doveva durare fino alla settima generazione. Perché questa fosse più efficace si dice che uno stuolo di preti, capeggiato dal vescovo, recitasse oscure formule e poi immergesse dei ceri accesi in grandi recipienti colmi d’acqua”4. Siamo riusciti a recuperare una di queste terribili formule che trascriviamo: “Iram Dei onnipotentis incurras, anathemate perpetuo subiceas, maledictiones quae in libro Moysi servis Dei maledictis dantur habeas, in presenti vita semper in aprobium vivas, membris magis necessariis careas, et in futura vita cun Datan et Abiron participium teneas, et cun diabolo et angelis eius ignibus aeternis mancipatus permaneas”.
[ Possa tu incorrere nell’ira di Dio onnipotente, soggiacere a un anatema perpetuo, avere le maledizioni che nel libro di Mosè sono date ai servi di Dio maledetti, vivere nella presente vita sempre odiato, mancare degli arti più necessari, e nella vita futura essere in compagnia di Datan e Abiron, e restare prigioniero eterno col diavolo e gli angeli suoi].

Enrico Costa, in Giovanni Tolu 5, riporta un intero capitolo (il V) intitolato Fattucchierie e scrive tra l’altro: Il prete cominciò la sua vendetta, valendosi vigliaccamente dei mezzi che gli dava il suo ministero. Egli mi fece le fattucchierie, tardai ad accorgermi che mi trovavo sotto l’influenza d’una legatura. Caddi presto ammalato, di quel malore singolare che i medici sono impotenti a guarire. Non si rida delle mie credenze. La mia convinzione è profonda perché fondata sulla esperienza di tutta la vita. Io ero fatturato. Il prete Pittui mi aveva fatto le legature e dovevo pensare scioglierle. Mi sentivo seriamente ammalato e bisognava guarire. La mia malattia era curiosa. Mi sentivo tutto pesto, come se fossi stato bastonato senza misericordia. Provavo una svogliatezza singolare, dolori atroci alle ossa, punture insopportabili a tutte le articolazioni. E questi dolori si facevano più acuti nell’ora del vespro, alla vigilia delle feste solenni, quasi a ricordare della festa di Nostra Signora di Bonuighinu…Io ben sapevo che in questi casi è opera vana ricorrere ai medici, bisognava raccomandarsi ai soli preti, o a persone esperte nella scienza delle fattucchierie…
A Villacidro, definita capitale delle superstizioni 6, era ed è diffusissima la credenza in malìe (mazinas), cogas, bruscias (streghe), sortilegi (malivattus) e simili superstizioni. Poteva, proprio nella capitale, mancare la leggenda dell’anatema lanciato dai frati? Certamente no!
Narra la leggenda che nella seconda metà dell’800, certi frati Mercenari che risiedevano nel convento situato nell’attuale Piazza Municipio, siano stati cacciati dal paese dagli indignati Villacidresi, stanchi dei continui malifattus operati dai loschi frati. Questi, dunque, fatti salire in senso contrario su degli asini, furono avvolti da pelli di capra tenute aderenti con dei tratti di corda. La leggenda vuole che i frati lanciassero una terribile maledizione su Villacidro e i suoi abitanti tracciando segni di croce con la mano sinistra e mormorando oscure minacce tra le quali il popolino tramanda la seguente: Custa fui ad a serbì a s’impiccai finas a sa settima generazioni!  (Questa fune servirà a impiccarvi fino alla settima generazione!).
Questa leggenda vorrebbe giustificare l’alto numero di suicidi presenti in Villacidro (pare occupare il primo posto in tutta l’Isola!) e, comunque, tutte le disgrazie che talvolta accadono nella cittadina, vengono, dal popolino, fatte risalire alla maledizione dei frati!
Giova, a questo punto, citare alcune notizie storiche che ridimensionano certe dicerie: In coerenza al disposto della Legge 29 maggio 1855, il Governo del Re ha disposto che i sei Religiosi Mercenari di Villacidro debbano in tutto il 17 del p.v. ottobre concentrarsi in questo Convento di Bonaria [a Cagliari]…Incamerato così il Convento con le sue adiacenze, L’Amministrazione della Cassa Ecclesiastica (Demanio), in data 31 gennaio 1862, vendeva lo stabile al Comune di Villacidro per la somma di £ 15.000 pagabili in dieci rate, ossia in dieci anni 7.
I frati in Sardegna vengono dunque considerati con un atteggiamento di paura e di sospetto. In un raccontino che vede come protagonista fra Ignazio da Laconi citato da Vincenzo Ulargiu 8, il celebre frate viene presentato come un inquietante personaggio con il quale non è bene scherzare.
Riportiamo questo breve racconto:
Fra Nàssiu e is piccioccheddus burlanus.
Torrendi a guventu cun sa bertela prena de limusinas, una dì fra Nàssiu hiat incontrau una ciurma de piccioccheddus gioghendi; is calis, appenas dd’hiant bistu de attesu spuntendi, ca fiat connottu de totus, mannus e pitticcus, cumbinant subitu de ddi fai una burla.
«Mì a fra Nàssiu! Ddi feus una burla?»
«E comenti?»
«Comenti? Unu de nosu si fingit mortu, e is aterus zèrriant a fra Nàssiu po nacchì ddu fai arrisuscitai»
«Mancai! Mancai! Ei! Ei!…» acclamant totus a una boxi.
Unu de issus si còrcat in terra, fendisì biri mortu;  is aterus s’attristant, strexendisì is ogus de su prantu.
Passat fra Nàssiu:
«Fra Nàssiu, bèngiat po caridadi ca nc’est unu cumpangiu nostru chi dd’est bènniu unu mali e c’est arrutu mortu…» e prangint:
«Uh! Uh! Uh!…»
«Ma, fillus mius, passiènzia, deu no si pozzu donai nisciunu cunfortu; si est mortu, abarrit mortu, signali ca sa voluntadi de Deus est aici; zerriài genti e fadeinceddu portai a domu» e nèndi aici, sighit andai e ddus lassat.
Cuddus faint po ndi strantaxiai su mortu burlendus, ma àsiu tènint! Fiat mortu de veras!… Immaginaisì s’azzicchidu, su prantu, is izzerrius ! Subitu currint totus avatu ‘e fra Nàssiu, prangendi a carroxius:
«Fra Nàssiu, bèngiat! Curgiat! Po amor’e Deus! Est mortu de vèras su cumpangiu nostru! Cùrrat po caridadi, fra Nàssiu !»
«Ma sa curpa est de bosaterus, ca dd’heis fattu morri amaròlla sendi sanu! De custas burlas non ddi fazzàis mai!…Ma immoi, bàxi, ch’est arrisuscitau de siguru !…»
Tòrrant e dd’agattant gioghendu, allirgu e prexiàu.
(traduzione):
Fra Ignazio e i ragazzi burloni.
Tornando al convento con la bisaccia ricolma di elemosine, un giorno fra Ignazio incontrò un gruppo di ragazzi che giocavano; i quali, vistolo in lontananza, pensarono subito di giocargli una burla.
«Guardate, fra Ignazio! Gli facciamo uno scherzo?»
«E come?»
«Come? Uno di noi si finge morto, e gli altri gridano a fra Ignazio di farlo risuscitare».
«Certo! Certo! Si! Si!…» esclamarono tutti insieme.
Uno di loro si stende per terra, fingendosi morto; gli altri si rattristano, asciugandosi gli occhi dal pianto; passa fra Ignazio:
«Fra Ignazio, venga per carità, che un nostro amico si è sentito male ed è cascato per terra, morto…» e piangono:
«Uh! Uh! Uh!…»
«a, figlioli miei, pazienza, io non vi posso dare alcun conforto; se è morto che resti morto, segno che la volontà di Dio è così; chiamate gente e fatelo portare a casa» e, così dicendo,continua il cammino e li lascia.
Quelli fanno per sollevare il morto per burla, ma hanno voglia! Era morto per davvero!…Immaginatevi lo spavento, il pianto, le urla! Corrono subito dietro fra Ignazio, piangendo a dirotto:
«Fra Ignazio, venga! Corra! Per l’amor di Dio! Il nostro compagno è morto davvero! Fra Ignazio, corra per carità!»
«Ma la colpa è vostra, perché l’avete fatto morire per forza essendo sano! Di questi scherzi non fatene mai!…Ma ora, andate che è risuscitato sicuramente!…»
Vanno, e lo trovano che giocava, allegro e contento.
Come si evince, la figura dei religiosi, specialmente dei frati, è circondata da un alone misto di rispetto e paura e la coscienza popolare attribuisce loro poteri taumaturgici e soprannaturali. Resta incerto il confine tra superstizione e religiosità e su questa zona non meglio definita della religiosità popolare sono fiorite in passato e continuano a fiorire anche oggi leggende e credenze nelle quali si possono cogliere residui di antichissime tradizioni, mai scomparse, dalla coscienza e dalla memoria collettiva dei sardi.

1)    Grazia Deledda: Leggende sarde, a cura di Dolores Turchi, Newton Compton, Roma, 1995.
2)    Ibidem.
3)    Dolores Turchi, Oliena…Barbagia…Sardegna, Nuoro, 1997.
4)     Ibidem.
5)    Enrico Costa, Giovanni Tolu, Ilisso, Nuoro, 1997.
6)    Gian Paolo Marcialis:  Villacidro, capitale delle superstizioni,Ed.LG, Arbus, 1997 e
Sa bidda de si cogas, Ed.Fiore (2ª edizione), San Gavino M.le,    2007.
7)    Liber Chronicus, redatto da mons.G.Diana, Archivio Parrocchia S.Barbara, Villacidro.
8)    Vincenzo Ulargiu, Messi d’oro del Campidano, Ed. Sandron, Palermo, 1926.

Gian Paolo Marcialis