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La Pastorella

La Pastorella

Dualchi ultimamente ricorre nei mei pensieri, e, casualmente, mi ritrovo questo articolo nei preferiti del mio browser. Si tratta di una intervista alla signora Maddalena Citzia, nota come Nenna, classe 1928.

“Prima di partire in guerra in Africa orientale, mio padre aveva acquistato venti pecore da pagare con il latte. Mamma sapeva mungere, ma doveva occuparsi dei miei fratelli più piccoli, uno ancora neonato e l’altro un po’ più grande. In campagna dovevo andare io insieme a mia sorella o da sola, nonostante avessi solo otto anni.

Il terreno era diviso in due lotti, uno veniva seminato a frumento e l’altro era destinato al pascolo. Bisognava sorvegliare le pecore, altrimenti sconfinavano nel terreno seminato ed erano guai. Mia mamma mi accompagnava a una valle dove non penetrava mai il sole, con un vestitino leggero addosso, scalza e con la neve alle ginocchia. Mamma mi dava tre fiammiferi e cercavo di accendere il fuoco con poca legna secca, ma le mani erano talmente fredde che spesso non riuscivo a sfregare i fiammiferi sulla pietra. Allora, per scaldarmi, quando le pecore pisciavano correvo e mettevo i piedi sotto le loro zampe. A volte mi recavo da un pastore fumatore e gli chiedevo alcuni fiammiferi. Mi rispondeva: «Va bene, figlia mia, va bene».

In primavera stavo tutto il giorno ad ascoltare il canto degli uccelli, il picchio, la tortora, il merlo, la ghiandaia, il corvo, la pernice. Osservavo la tortora mentre intesseva il nido, sbirciavo le uova e quando nascevano le tortorelle ne prendevo qualcuna e la allevavo. Quando crescevano le liberavo, e questo era il mio divertimento. Quali altri giochi mi sarei potuta inventare?
Avevo un cagnolino che mi faceva compagnia, non mi lasciava neppure per un minuto. Qualche volta incontravo in campagna altri pastorelli, maschi e femmine, perché allora i bambini lavoravano in campagna.

Dopo due anni mio padre è rientrato dall’Africa ed ha acquistato un terreno, che ha adibito alla semina. Io, nonostante l’età, collaboravo con lui a zappare e ad estirpare le erbe con una piccola zappa. Se scordavo qualche ciuffo d’erba mi dava colpi con il manico della zappa.
Mio padre era anche il primo cacciatore di Dualchi. Con lui andavano a caccia signori di Milano, Genova, Oristano. Non aveva un fucile proprio perché gli mancavano i soldi per acquistarlo, ma un giorno un generale gliene ha regalato uno e lui gli è stato riconoscente per sempre, tanto che ogni volta che il generale veniva in paese, gli regalava la selvaggina.

Mamma andava spesso a Macomer a vendere la selvaggina e le uova, anche a caccia chiusa. Un giorno, con mio fratello e l’asino carico, è finita nel palazzo della finanza e ha chiesto ad un finanziere: «Volete comprare un po’ di cacciagione? La caccia è chiusa, ma non comportatevi male con noi, perché siamo poveri!».
Solo dopo averlo udito dalle scale mentre diceva: «Oggi mangiamo selvaggina gratis» e dopo essere uscita dal palazzo si è resa conto di dove si trovava.
«Sicuramente non mangerete di questa selvaggina!» ha pensato. Ha detto a mio fratello: «Figlio mio, scappa con l’asino in quella strada, se no ci fanno la multa. Io ti raggiungo subito». È riuscita a scappare e a vendere la selvaggina.

Viaggiava a piedi, carica di un recipiente di cinquecento uova, tre o quattro lepri e cinque o sei pernici. Chiudeva la porta d’ingresso a chiave e un bastone di traverso e noi figli restavamo a casa a giocare fino a quando non rientrava. Per evitare qualche incidente si portava dietro i fiammiferi.
Un giorno è passata accanto a casa una signora anziana, io l’ho vista dalla finestra e l’ho chiamata: «O quella donna, o quella donna!»
«Sì, figlia mia, cosa vuoi?»
«Ce la apri la porta?»
«E tua mamma dov’è?»
«A Macomer».
«Figlia mia, non preoccuparti, torno dopo ad aprirvi la porta».
Così abbiamo atteso il rientro di mamma, che ogni volta da Macomer ci portava arance, una bisaccia di pane, caffè, zucchero e tutto ciò che necessitava in casa. Qualche cliente le regalava anche scarpe, le volevano bene tutti. Ci portava anche qualche confetto e caramelle.

Eravamo dei bravi bambini, bene educati e rispettosi. Mi meraviglio dei bambini di oggi, perché non ubbidiscono. La mamma dice loro: «Fai i compiti». Loro le rispondono male, prendono la bicicletta, partono e lei non reagisce. Se mi fossi permessa di dire a mamma le parole che dicono oggi, mi avrebbe tolto i denti a schiaffi e a cinghiate. Quando crescono questi, Dio ne liberi, povere mamme, perché non riusciranno più a correggerli, comanderanno loro.

A ventun anni mi sono sposata. Come corredo da mamma ho ricevuto tre paia di lenzuola e le coperte, come mobili il letto, un comodino e le sedie. Non potevo pretendere altro perché era povera. Anche mio marito era povero. La nostra casa era vecchia, ma non avevamo i soldi per ristrutturarla. Le notti di pioggia spostavamo il letto inutilmente da una parte all’altra della stanza, perché ci pioveva sopra.
Accendevamo il fuoco al centro della cucina e dal momento che non c’era il comignolo, il fumo anneriva i muri e il soffitto. Pioveva acqua nera come la sapa.
In seguito mi hanno regalato una maialina. Io l’ho allevata con il latte fin da piccola e la tenevo nel porcile, ma ogni tanto penetrava in casa e si specchiava davanti all’armadio. Era docile come un cane.

Avevamo anche venti pecore e quando la maialina è cresciuta veniva con me dietro le pecore; per lei rubavo pere, raccoglievo le ghiande che si trovavano copiose per terra e si coricava accanto a me. Poi sono nati i maialetti e l’ho tenuta altri cinque o sei anni.
I maialetti pretendevano di succhiare le mammelle continuamente, ma lei era furba e se non aveva voglia di allattarli restava in piedi.
Allora la accarezzavo e le dicevo: «Allattali, poveretti, muoviti!» Lei si coricava e li allattava. Loro succhiavano immobili.
Per sfamare la maialina coglievo anche l’erba a sacchi e li riempivo talmente che non riuscivo a trasportarli. Mi aiutava un signore anziano, che spesso mi consigliava di ripetere il tragitto con sacchi più leggeri, ma io preferivo evitare altri viaggi.
Dai maialetti guadagnavo bene ed erano talmente belli e grassi che li acquistavano anche dai paesi vicini, Bortigali, Borore e Macomer.
Un giorno una signora povera come me mi ha consigliato: «Figlia mia, vendi qualcosa o fai un prestito per acquistare una vitella».
Allora è venuto un macellaio e mi ha chiesto: «Mi vendi la scrofa?»
«Se ci mettiamo d’accordo», gli ho risposto.
«Quanto vuoi?»
Ho ripetuto: «Dimmi tu quanto mi vuoi dare».
Lui mi ha proposto un prezzo e io non ho accettato: «No, voglio di più».

Infine gliel’ho venduta per settantamila lire ed ho acquistato una vitella per ottanta. Per la differenza di diecimila abbiamo chiesto un prestito al signore cui versavamo il latte.
Dalla vitella è nata una vitellina e anno dopo anno il patrimonio è aumentato. Io trascorrevo le giornate a pascolare le mucche e così ho trascorso tutta la vita.
Abbiamo acquistato l’aratro e mio marito per arare ha domato le mucche. Io lo seguivo e quando arava scavavo i solchi per la semina come un uomo. Ero sempre inchinata e la schiena mi faceva male, quando terminavo di preparare un solco ero costretta a buttarmi per terra con le gambe in aria.
Siamo arrivati a nove capi bovini, eravamo dei piccoli proprietari, ma proprio allora i ladri ci hanno portato via tutto il bestiame! Abbiamo avuto le mucche per circa dieci anni, ogni anno vendevamo due vitelli e i soldi li depositavamo in banca per ristrutturare la casa. Per acquistare la minestra, lo zucchero e il caffè vendevo le uova e conservavo i soldi in una scatola. Quando arrivavo alla cifra sufficiente compravo la stoffa a metri, a volte qualche lenzuolo o coperte per il letto, una tovaglia con i tovaglioli o asciugamani. Grazie a Dio mi sono fatta un bel corredo, abbiamo ristrutturato la casa e oggi stiamo bene.

Da Domos de ammentu (Le case della memoria), a cura di Costanzo Sanna, edizioni Iris, 2005.