Nel passato ad Esterzili i pastori ed i contadini avevano scarsa dimestichezza per l’arte equestre, poichè curavano poco l’allevamento, la selezione e l’addestramento dei cavalli da sella.
Si allevavano soltanto acchèttas e acchèttèddas, vale a dire piccoli esemplari rudi di taglia modestissima, lasciati liberi allo stato brado sui magri pascoli degli altipiani di Nuallèi e di Orborèdu o nel salto di Cuccurueddì. Siffatti equini erano sgraziati nelle forme, con la testa enorme, il corpo tozzo, adatti solo ad operare nei luoghi scoscesi.
Dopo una sommaria e grossolana domatura, condotta con metodi bruschi e violenti, i cavallini si adoperavano o come cavalcature o come animali da soma, con una rustica bisaccia talanese di pelo di capra gettata sulla sella scomoda e disadorna. Pochissimi proprietari usavano il morso e le redini: il cavallo era guidato solo con una corda di canapa, fissato al collo della bestia con un nodo scorsoio fermato da un blocco all’occhiello “sa cucùrra” mentre si avvolgeva il canapo attorno al muso con un giro di fune annodata, detto “su fruncìli” tuttavia alcuni esemplari frutto di accoppiamenti casuali (o illegali) con stalloni di razza discreta riuscivano buoni elementi che, quasi sempre finivano per essere acquistati dai solerti mercanti siciliani che li ricercavano per rivenderli come cavalli da calessino o come bestie da lavoro agricolo per trainare piccoli aratri negli agrumeti o nelle vigne di quell’isola.
Se ad Esterzili si trascuravano i cavalli, si riservava invece grande e attenta cura ai bovini, anch’essi allevati allo stato brado, selvatici, di taglia minuta, agili sui luoghi scoscesi e impervi, veloci negli spostamenti, resistenti alla scarsità del pascolo ed al freddo, animali da carne e da lavoro, mai da latte.
Appena i torelli avevano raggiunto i due anni di età, venivano catturati a soga (col laccio), nei recinti detti baciìllis, si aggiogavano con robusti buoi dòmiti e si conducevano in paese, dove avveniva la domatura graduale, fatta di pazienza, abilità, tecnica sperimentata, con una serie di espedienti, nel quadro di una ritualità tradizionale che però dava ottimi risultati. Innanzi tutto correva grande attenzione nella formazione della coppia da giogare, e su giù in quanto i due giovani bovini dovevano essere quasi uguali nella statura, nella robustezza, nella curvatura delle corna e, possibilmente, nel manto. Il più possente si aggiogava a sinistra (su oi maccòsu) mentre il più debole andava a destra (boi de ordinàgus), cioè bue sul quale si appoggiavano le redini. Poi bisognava osservare e rispettare tante usanze zoetnografiche, veri e propri tabù da non infrangere, come, ad esempio, il nodo intorno all’orecchia interna mai fatto la prima volta in presenza di donne, la scelta del nome, la magia dei richiami, la modulazione del fischio durante l’abbeveratura e tanti altri accorgimenti che talvolta erano segreti del mestiere.
Nella prima fase della domatura, dopo alcune ore di legatura al palo, per abituarli alla disciplina domestica, i torelli venivano guidati lungo una stretta strada campestre aggiogati separatamente ai vecchi buoi da carro, poi venivano aggiogati in coppia, quindi spinti a trainare lunghe ramaglie di frasca, su tragu, poi una massiccia pietra da trebbiatura fissata ad una robusta catena di acciaio ed infine abituati a trascinare il carro agricolo dalle ruote pesantemente cerchiate di ferro ed infine a sapere avanzare con l’aratro di legno col vomere di metallo appuntito. Erano operazioni graduali, insistenti, efficaci.
Ancora oggi corre la fama di bravi domatori di bovini che, in una decina di giorni di lavoro ad alto livello, riuscivano ad ammansire e ad addestrare anche selvaggi torelli da corrida. La gente ricorda i Serra, sopratutto Luisu e Arrafièli Serra; Silvino Melis; i fratelli Làconi; Bernardo Oliànas; Daniele Lai; Bernardino Muceli; Giuseppino Loi (de Orcoliosu;) i fratelli Puddu (de Pista su pei), Luisu, Mungigu, Vissenti e Severinu; Valentino Olianas (Pisca bruvura) e tanti altri, la cui maestria era conosciuta e apprezzata anche da allevatori di altri paesi che richiedevano sempre i domatori di Esterzili. Anche nelle altre operazioni zootecniche un tempo gli Esterzilesi inclinavano alle costumanze barbariche tradizionali eseguendo, ad esempio la castrazione dei tori, stalloni, caproni e arieti con magli di legno tenero di fico con la corteccia verde o con l’accostamento sulle ghiandole di due piastre di ferro arroventate. Recentemente questa operazione si sapeva praticare con le tenaglie a scatto o con l’asportazione chirurgica che i buoni allevatori sapevano compiere con precisione.
Per impedire che il bestiame grosso si allontanasse dai limiti del pascolo o che scavalcasse con salti le muricce a secco o le siepi dei terreni cintati, si usavano pastoie di pelle robusta o di corda (is trobèas) oppure pastoie d’acciaio con un congegno di chiusura a chiave (is travas) anche in previsione di furti e, per impedire salti di ostacoli o funzioni di accoppiamento ai tori ed agli stalloni, al garretto di una zampa anteriore si fissava un pesante pezzo di ramo biforcuto (sa furca), che in pratica, ostacolava la bestia negli slanci. In autunno e d’inverno tutti gli animali venivano assistiti nel pascolo con la distribuzione di frasche di rovere, leccio, erica o di altri arbusti (sa fròngia), in aggiunta a ciò che si trovava in natura talvolta, quando si voleva che la bestia pascolasse entro una area ristretta ben delimitata, si legava con una lunga fune ad una zampa posteriore e così lo spazio pascolativo era determinato (ammindài unu pegus).
Per svezzare dall’allattamento materno il puledrino, si adoperava una specie di capestro a punte aguzze intorno al muso, in modo che la cavalla lo allontanasse dopo la molestia. Per svezzare il vitello si usava una una tavoletta rettangolare sagomata, attaccata alle narici, in modo che impedisse l’accostamento delle labbra ai capezzoli della mucca, ma lasciasse libero il lattonzolo di brucare l’erba.
Nota: Tratto da http://www.comune.esterzili.nu.it