Press "Enter" to skip to content

La Candelaria di Orgosolo

La mattina del 31 dicembre i bambini di Orgosolo si recano di casa in casa per chiedere “sa candelarìa“. Le porte aperte, le donne sono pronte ad accogliere positivamente e con sollecitudine la richiesta: “A nolla dàzes sa candelarìa?” (ci date la candelarìa?), che dalle prime luci del mattino fino a mezzogiorno risuonerà ininterrottamente sugli usci del case del paese.

La “candelarìa” è l’offerta di un pane (cocòne), appositamente preparato, insieme a frutta, biscotti, danaro: una consuetudine che a Orgosolo è ancora vivissima, attesa con impazienza da tutti i bambini e predisposta con impegno dalla gran parte delle famiglie.

Il “cocòne” viene approntato, per la massima parte, nei giorni immediatamente precedenti il 31, in casa, da gruppetti di donne aventi rapporti di parentela e di buon vicinato. È composto di farina di grano duro (sìmula) impastata con lievito, acqua tiepida, sale e strutto. Dopo una lunga lavorazione, che si serve oggi dell’ausilio delle impastatrici elettriche a rullo, l’impasto viene diviso in pezzi grosso modo sferici, della grandezza di una arancia, che vengono lasciati a lievitare; si procede quindi a spianarli col mattarello fino a ottenere una sfoglia di circa 35 cm di diametro, “sa tundìna“.

Dopo un’ulteriore lievitazione tra teli di lana, di lino o canapa (pànnos de ispica), si procede all’infornata. Poco prima il disco di pasta viene profondamente segnato a croce per tutto il suo diametro con una rotella mentre un’ altra piccola croce viene impressa nelle quattro parti uguali precedentemente segnate dalla rotella.  La cottura della “tundìna” avviene in forno caldo, con fiamma leggera, senza che venga voltata in modo che la faccia superiore rimanga bianca e lucida. Appena sfornato, il pane viene accuratamente spazzolato e, quindi, ordinato a strati nelle corbule.

Ai bambini verrà donato un quarto – ma talvolta anche due – dell’intera “tundìna”, vale a dire un “cocòne”. Attualmente la gran parte delle famiglie destina a “sa candelarìa” tre “càrtos” di grano; poiché da ogni “càrtu”, che equivale a 20 kg, si ottengono mediamente 40 “tundìnas”, ogni casa ne avrà a disposizione 120 circa, ovvero 480 “cocònes”.

Una famiglia con molti bambini in età di “candelarìa” in genere ne prepara di meno, in quanto tiene conto che una notevole quantità di pane verrà raccolta attraverso la questua. Nell’arco della mattinata si verifica, infatti, una sorta di “partita di giro”: si ha un’uscita, con i doni a tutti i bambini che si presentano col loro sacchetto bianco di tela, e si ha un’entrata, costituita da quanto i bambini portano nelle proprie case. Ovviamente le famiglie dove non vi sono bambini registrano soltanto un’uscita: si dà ma non si riceve.

Va detto che negli ultimi anni il “cocòne” ha perso la sua centralità: ai bambini interessano soprattutto i soldi, poi, in subordine, i biscotti e, infine, la frutta e il pane.

Non va inoltre dimenticato che per i bambini di Orgosolo la “candelarìa” è anche l’occasione nella quale ricevono dai parenti più stretti i doni di Natale. Anche per questo motivo la spesa che le famiglie devono affrontare è piuttosto ingente. Oltre a procedere alla cottura del pane, nei giorni precedenti il 31 si provvede ad acquistare cassette di frutta e scatole con pacchi di biscotti: pur nella diversità di capacità economiche nessuna famiglia, salvo gravi impedimenti, vi rinuncia. Anche le famiglie colpite da lutti recenti preparano il pane che viene però offerto senza dolci né frutta.

La partecipazione alla questua è riservata ai bambini e alle bambine dai 4 ai 12 anni circa; si ha perciò un’età compresa tra due momenti di passaggio; il primo sancisce l’acquisizione di un’autonomia motoria extra familiare e di una capacità di raccolta e trasporto (i sacchetti, in genere federe per cuscino, se pieni, arrivano a pesare diversi chili) e, dunque, indica il superamento della prima infanzia e l’ingresso nella fanciullezza; il limite superiore dei 12-13 anni ne stabilisce la fine e nel contempo segna l’avvio della fase adolescenziale.

A 12-13 anni i bambini di Orgosolo svolgono già attività lavorative ben definite, i maschietti in campagna, specie se figli di pastori, le bambine a casa. Per questo, forse, mentre i piccolissimi attendono con impazienza ed eccitazione la prima partecipazione alla questua, in quanto rappresenta il riconoscimento formale e comunitario di una crescita fisica e psichica, i più grandi, invece, cominciano a sentirsi a disagio: entrando nelle case tendono come a giustificarsi, annunciando che si tratta dell’ultimo anno; con queste parole manifestano certo soddisfazione ma anche la consapevolezza della perdita di un’età minore, che aveva anche i suoi lati positivi e i suoi privilegi.

La questua, come già accennato, va avanti fino a mezzogiorno. Nel corso della mattinata, i bambini più grandi soprattutto riescono a riempire i propri sacchetti più volte e, perciò, per non perdere tempo tornando a casa, li scaricano nelle abitazioni di parenti dislocate in punti strategici, a mo’ di parcheggio, per poi continuare immediatamente il giro. Dopo mezzogiorno, aiutati dai genitori o dai fratelli più grandi, i bambini recuperano i doni dai punti d’appoggio, provvedendo infine alla conta finale dei soldi, e in generale alla verifica di quanto raccolto. Non è infrequente che riescano a guadagnare cifre di 300-400mila lire, che vengono requisite dai genitori per destinarle ad acquisti, di abbigliamento ed altro, normalmente, per i bambini stessi.

La candelarìa non è comunque finita; essa avrà infatti un’importante appendice notturna, questa volta effettuata da gruppi di adulti, donne e uomini, e interesserà soltanto le case degli sposi dell’anno che sta per finire.

Dopo quella dei bambini al mattino, i giovani sposi dovranno, pertanto, prepararsi a ricevere una serie di visite ancor più ampia e variegata.

L’impegno economico per potervi far fronte è consistente: oltre al pane, infatti, vengono preparati i dolci, normalmente le stesse varietà offerte per il matrimonio, il liquore all’uovo (su bov), immancabile nelle feste del paese, e acquistati liquori, cioccolati, ecc.

Nessuno vi rinuncia, anche a costo di dover affrontare dei sacrifici; vi è anzi chi, non abitando ad Orgosolo, vi torna per organizzare il ricevimento nella casa dei genitori o di parenti residenti nel paese.

A partire dalle nove fino alle due o le tre del mattino, dunque, gruppi delle dimensioni e componenti più svariate, che, talvolta, nei pressi delle case degli sposi, divengono una vera e propria folla, attraversano le strade e i vicoli del paese, quasi sempre al buio in conseguenza di un’attività di abbattimento delle lampadine pubbliche, tanto puntuale da fare anch’essa parte della tradizione.

Ciascun gruppo si ferma davanti all’uscio della casa degli sposi e leva un canto che è insieme augurale e di richiesta del pane:

Viva viva s’allegria
E-a terra sos ingannos
Bonos printzipios d’annos
Bos det Deus e Maria
Viva viva s’allegria Dazzennollu su cocone
Pro more e Zesu Bambinu
Appazas dinare e binu
Tridicu e orju a muntone
Dazzennollu su cocone.
Viva viva l’allegria
Siano abbattuti gli inganni
Un buon inizio d’anno
Vi dia Dio e Maria
Viva viva l’allegria
Datecelo, il pane
per amore di Gesù Bambino
Abbiate denaro e vino
Grano e orzo a mucchi
Datecelo, il pane.

Più direttamente connesso con la condizione degli sposi e, quindi, incentrato sull’augurio di prosperità e di ingrandire presto lo famiglia appena costituita, è il testo del canto seguente:

E unu lizu unu lizu
E Deus bos diat fizu
A gustu Vostru e non meu
E fizu bos diat deus
S’alligret d’ogni montagna
Ch’es bessida Missennora
Paret s’istella Aurora
Chin sos suos assemizos
Deus bos det duos fizos
Fattos ambos a una froma
Unu siat Papa in Roma
S’atteru Re in Ispagna
S’alligret d’ogni montagna
Dazennollu su cocone
Pro more e Zesu Bambinu.
Un giglio, un giglio
Dio vi dia un figlio
Secondo il vostro gradimento e non il mio
Un figlio vi dia Iddio
Sia lieta ogni montagna
Che è uscita la Madonna
Sembra lo stella Aurora
Con le sue fattezze
Dio vi dia due figli
Fatti entrambi a una sembianza
Uno sia Papa in Roma
L’altro Re in Spagna
Sia lieta ogni montagna
Datecelo, il pane
Per amore di Gesù Bambino.

AI termine del canto, il gruppo, che spesso chiede “vi basta?“, viene invitato ad entrare in casa dagli sposi e dai parenti. Ricevuti ancora gli auguri di felicità e prosperità, gli sposi offrono “su cumbidu“, ovvero vino, liquori, dolci.

La gran parte dei visitatori, anche se col canto chiede “su cocone“, non prende il pane, che pure è a disposizione, salvo le donne, per lo più anziane, che lo ripongono in un sacchetto di plastica che portano appresso.

L’uso di andare a cantare la “candelarìa” agli sposi novelli risale a circa trent’anni fa. Fino ad allora, a memoria d’uomo, la questua si effettuava nelle case benestanti del paese da parte della popolazione povera, che, come è facile immaginare, costituiva la gran parte degli abitanti di Orgosolo. Si trattava, dunque, di una vera e propria elemosina molto attesa dalla popolazione e, in un certo senso, sentita come doveroso obbligo dai ceti più abbienti.

Va, peraltro, detto che le modalità di svolgimento dell’antica questua notturna la rendevano meno imbarazzante e in qualche modo la spersonalizzavano: i questuanti, infatti, facevano in modo di non essere riconosciuti dai donatori. Ciò era possibile per la scarsa (o inesistente) illuminazione pubblica e privata, per il fatto che il canto si levava o in strada o nel cortile buio di case unifamiliari, e per il fatto che i cantori tenessero il volto ben coperto da uno scialle, se donne, e da pastrani e berretti, se uomini.

Una visita in quelle case fortunate, spesso ripetuta grazie all’anonimato, consentiva di raccogliere una discreta quantità di pane “bianco”, di ottima qualità e, non infrequentemente, anche un po’ di lardo e salsicce.

I più anziani ricordano che la “candelarìa” notturna veniva nel passato frequentata anche da gente povera del circondario (Oliena, Mamoiada, Fonni) che evidentemente non poteva permettersi di rinunciare alla possibilità, certamente assai rara, di ricevere gratuitamente alimenti preziosi. Le parole del canto che si riporta di seguito, tuttora eseguito, parrebbero indicare che il dono della “candelarìa” venisse consapevolmente vissuto come un’operazione di ridistribuzione di beni tendente a ricostituire uno stato di eguaglianza tra gli abitanti del paese:

Bona notte bos det Deus
E annu bonu a s’intrada
Cun bonu gustu e recrèu
La colezes cust’annada
Sa mesa est apparitzàda
Pro facher sa caritade
Tottu bos aggualades,
Sos riccos chin sos povèros
Cando su Re de sos chelos
S’est cherfidu aggualare
A tres chidas de Nadale
Una buona notte vi dia Iddio
E un buon inizio d’anno
Con soddisfazione e piacere
La trascorriate, quest’ annata
La tavola è imbandita
Per fare la carità
Tutti quanti diventate uguali,
I ricchi con i poveri
Quando il Re dei Cieli
Ha voluto uguagliarsi (all’uomo)
Nella terza settimana di dicembre.

Nel nome di Gesù Bambino i ricchi e i poveri diventavano uguali; un rifiuto alla contribuzione, e dunque ad accogliere il messaggio del canto, veniva mal tollerato: una risposta negativa (a perdonare), magari mandata attraverso una porta chiusa, provocava nei questuanti imprecazioni e parole di malaugurio.

Il generale miglioramento delle condizioni economiche del paese ha determinato l’abbandono della questua notturna nelle case dei “ricchi” del paese e ne ha modificato il significato e la funzione.
Con la visita agli sposi, oggi, il paese prende atto, in misura ancora più ampia di quanto non abbia potuto fare in occasione del matrimonio, della costituzione di un nuovo nucleo familiare e, in maniera affettuosa e corale, ne riconosce e ne sancisce l’appartenenza alla comunità umana e all’universo culturale orgolese.

La tradizione delle questue di capodanno nell’isola, specie condotte da bambini, è attestata in diversi scritti del secolo scorso. Per quanto attiene al territorio che più direttamente qui interessa, vengono riportate notizie dal Ferraro e dalla Deledda.

Il Ferraro definisce il “candelariu” come “Dono delle Calende di Gennaio” (donum candelarium) consistente in frutta secca, dolciumi, ecc. La Deledda, sempre riferendosi a Nuoro, fornisce una descrizione del pane che veniva offerto (“piccolo, bianco, frastagliato, lucido, in forma di uccello e di altri animali”); inoltre informa come i bambini, nel caso di una risposta negativa fossero soliti reagire: “Se il candelariu viene negato, i ragazzi, indispettiti, si allontanano gridando:

Non nolla dazes sa candeledda?
Cras a manzanu
in terra nighedda.
Non ce la date la candeletta?
Domani mattina
possiate trovarvi in camposanto”.

Al 1912 risale una breve descrizione della questua dei bambini di Olzai detta “candelarzu“, pubblicata da Pietro Meloni Satta: “L’alba del 31 dicembre dell’anno che scompariva, ansiosamente attesa, veniva salutata con gioia dei ragazzi del paese. Essa portava il dì de su candelarzu. Al primo albeggiare quei vispi ragazzetti lasciavano la stuoia o il lettuccio, infilavano l’uscio, e si davano a correre di casa in casa, allegri e spensierati … Cotesta allegria, cotesta festa fanciullesca, era pro su candelarzu … Le massaie si facevano premurose alla porta per accontentare i vispi ragazzetti, con abbondanti manciate di mandorle, noci, nociuole, castagne, uva passa“.

Il Meloni Satta si avventura nell’ipotesi che “candelarzu” derivi da candela e che quindi significhi “questua con candele”.

Max Leopold Wagner, dopo aver citato il Ferraro e il Calvia ne “La vita rustica“, ritorna su questi autori nel “Dizionario Etimologico Sardo”, trattando del termine Kandelariu: “Specie di focaccia figurata che si regala ai ragazzi e ai poveri in occasione del Capodanno: donum calendarium“.
La data di svolgimento della “candelarìa” di Orgosolo, lo status sociale dei suoi protagonisti, le formule e l’oggetto della richiesta, consentono di inserire la manifestazione nella vasta e ben nota casistica di cerimonie che a partire dall’autunno e fino al Carnevale accompagnavano – e talvolta ancora accompagnano – i tanti “Capodanni” delle società tradizionali europee: Ognissanti, San Silvestro/Primo Gennaio, l’Epifania, ecc. La letteratura storico-etnologica offre al riguardo un repertorio vastissimo e riferirne diffusamente andrebbe oltre le finalità del presente scritto. Si vuole, però, brevemente accennare ai principali elementi comuni caratterizzanti tali manifestazioni.
La pressoché totalità delle questue, in qualsiasi paese si svolgessero, era condotta da bambini, da poveri, da stranieri o da donne, vale a dire da categorie sociali per un verso o per l’altro (età, condizioni economiche, pregiudizi culturali) caratterizzate da uno status di “alterità”, quando non di subalternità. Inoltre, la richiesta di pane, dolci, vino, ecc., era generalmente contraddistinta da atteggiamenti ricattatori, e minacciosi (talvolta si effettuavano dei veri e propri furti) accompagnati da riferimenti più o meno diretti alla morte e alla vanità della vita umana e dei beni terreni.

Un esempio significativo di quanto si va dicendo è offerto dal testo scozzese del XVII secolo citato da Levi-Strauss, che riporta le parole che venivano pronunciate dalle bande di ragazzi in occasione della questua di Natale: “Muoviti buona donna e non essere pigra / nel preparare il tuo pane per il tempo che sei qui (in vita) / Verrà il tempo che tu sarai morta e non avrai bisogno né di grano né di pane“.
L’evocazione della morte per dare forza alla richiesta di contribuzioni si ritrova nei più disparati contesti geografici e storici: dalle parole dei bambini statunitensi nelle questue per Ognissanti (Halloween) ai testi delle Koliady cantate dai giovani ucraini nel periodo di Natale.
In questo quadro si può agevolmente inserire anche un gran numero di questue della tradizione sarda. Oltre naturalmente a quelle assai più esplicite nella loro denominazione quali “su mortu-mortu“, come veniva chiamata la questua di Ognissanti, si può citare, a titolo di esempio, la questua di Sant’Andrea a Borio, ancora viva: gruppetti di bambini, la sera del 30 novembre, visitano le case recando una zucca vuota, sulla cui scorza è inciso un volto grottesco, illuminata internamente da una candela.

Se poi si rivolge lo sguardo al Carnevale non si ha difficoltà a riconoscere riferimenti diretti nelle rappresentazioni di alcune maschere questuanti tradizionali, quali “sa filonzana” (la filatrice), nel Carnevale di Ottana e “su mortu ‘e carrasegare” (il morto di carnevale) di Gavoi.
Il rapporto bambini/questue natalizie/mondo dei morti è chiarito da Levi-Strauss nel breve quanto considerevole saggio del 1952 “Babbo Natale suppliziato”.

Dopo aver ricordato che le questue dei bambini nell’Europa tradizionale non sono limitate al Natale ma hanno un significativo ovvio nella questua di Halloween, Levi-Strauss nota che: “Il progredire dell’autunno, dal suo inizio sino al solstizio che segna il salvataggio della luce e della vita, si accompagna quindi, sul piano rituale, a un movimento dialettico le cui principali tappe sono: il ritorno dei morti, la loro condotta minacciosa e persecutrice, la fissazione di un modus vivendi con i vivi che consiste in uno scambio di servigi e di doni, infine il trionfo della vita quando, a Natale, i morti ricolmi di regali abbandonano i vivi per lasciarli in pace sino all’autunno successivo… Ma chi può mai impersonare i morti, in una società di vivi, se non tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sono incompletamente incorporati al gruppo, ossia partecipano di quella “alterità” che è il segno distintivo del supremo dualismo, quello fra morti e vivi?

Non stupiamoci dunque nel vedere gli stranieri, gli schiavi e i bambini diventare i principali beneficiari della festa. L’inferiorità di statuto politico o sociale, la disuguaglianza delle età forniscono al riguardo criteri equivalenti… Non è quindi sorprendente che Natale e Capodanno (suo doppione) siano feste degli altri, poiché il fatto di essere altro è la prima immagine ravvicinata che possiamo rappresentarci della morte”.

La pertinenza di tale autorevole ragionamento interpretativo alla Candelarìa viene confermata anche dalle ragioni che consentono la partecipazione alla manifestazione, con la preparazione del pane e l’accoglienza ai bambini, anche delle famiglie colpite da lutti e da disgrazie recenti (situazioni che impongono normalmente l’astensione dalle feste): si dice, infatti, a Orgosolo, che il pane si fa per le anime: “Est pro sas animas“; attraverso i bambini, dunque, si trasmette un dono ai defunti. Dato per acquisito questo punto, niente, tuttavia è dato di sapere sulle ragioni per le quali un rituale la cui struttura organizzativa risulta presente nelle lontane feste del calendario romano, Saturnalia e Calende di Gennaio in primo luogo, possa essersi conservato negli elementi fondamentali fino ai nostri giorni.

Rimane tutto da chiarire in che modo la diffusione e l’affermarsi del Cristianesimo, al di là delle opposizioni conclamate, possano averne determinato, nella lunga durata, la sopravvivenza.

E, ancora, va sicuramente approfondito l’esame del ruolo svolto, nella lunga storia attraverso i secoli di questa tradizione, dalla componente ludica, di godimento comunitario presente nel breve momento di rappresentazione di un’utopica società di eguali.

Fonte: (da P. Piquereddu, “La Candelarìa di Orgosolo” in In nome del pane. Forme, tecniche, occasioni della panificazione tradizionale in Sardegna, Sassari, ISRE, 1991).

Paolo da Ozieri
http://www.webalice.it/ilquintomoro