Leggiamo che un giorno le venne portato un bambino affetto da pertosse, che i medici avevano ormai diagnosticato in fin di vita, ma che lei riuscì miracolosamente a guarire grazie ad erbe e preghiere.
Nello stesso libro, facciamo anche la conoscenza di Segnos Tomas, un prete dall’aspetto corpulento e dal carattere deciso e combattivo. Si dice ch’egli non avrebbe temuto nemmeno il diavolo in persona: un giorno venne assalito da un gruppo di banditi mentre viaggiava in carrozza, diretto verso una missione, e per allontanarli iniziò a sparargli senza perdere troppo tempo.
Operava a korfos de libro (colpi di libro), ovvero usando come “formule magiche” i passi della Bibbia. Una volta un ladro picaro tosò il suo cavallo per far del suo crine alcune funi: “magicamente” la domenica successiva si ritrovò alla messa principale, confessandosi davanti all’intera comunità davanti all’altare maggiore.
Scrive Giovanni Dettori, su un vecchio numero de “L’Unione Sarda” :
Conservo un ricordo preciso, indelebile perché fatto memoria, di malattie infantili: pertossi e malarie.
Di medici e cure: diventate forse, ora, la più incurabile delle malattie dei nostri giorni. Con la superstizione delle USL, le analisi e le psicoterapie senza fine, l’ospedalizzazione coatta per nascere e per morire, gli effetti collaterali, i malanni da farmaci.
Dimenticandoci ogni volta e sempre che, come ben sapevano i nostri vecchi, forse mai nulla è nel corpo che non sia, prima, anche nell’anima. E che non si muore perché ci si ammala. Ci si ammala perché bisogna, ‘si deve’ necessariamente morire.
Forse anche in quei casi che passano per ‘incidenti’, quando l’anima sente e sa di doversi accomiatare dal corpo. Perché tutto ciò che accade, accade ‘necessariamente’… E tutto è Uno. Cent’anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, titola un suo libro James Hillman. Oltre settant’anni di ‘ricerca’ mirata a scovare un veleno cellulare a tropismo selettivo per i tessuti tumorali, restano ad oggi e resteranno sterili. Una letteratura sterminata sulla cellula cancerosa, sul tessuto canceroso… e pochi lavori insignificanti sull”uomo cancerizzato’, sull’uomo malato di cancro.
Smarrito ormai il nesso profondo tra l’anima individuale e l”Anima Mundi’ che l’uomo del Rinascimento ancora conosce e rispetta, la medicina medicina ‘moderna’ si è fatta ed è rimasta cartesiana: more geometrico demonstrata . Ostinandosi sulle singolarità, guardando solo al soggetto e dimenticando il resto. Le connessioni col tutto: fattori sociali, degrado ambientale e urbano, intossicazioni da media… L’uomo malato, passivizzato, frustrato, latentemente desideroso di morte è stato così sempre pi` circoscritto immiserito e ridotto all’organo sofferente: rene fegato cuore cellula cancerosa, tessuto canceroso.
E le stesse cure diventate sovente più terrificanti del male. Ancora negli anni della mia infanzia, vivevano nei nostri paesi donne e uomini – ma soprattutto donne – che Giordano Bruno avrebbe amato e come lui, appena qualche secolo addietro e altrove, avrebbero sicuramente assaporato le delizie e le estasi salvifiche del rogo.
‘Sas brussas‘, le streghe conoscevano ancora la chiave strategica per ‘aprire’ le cose, senza mai forzarle. Ancora l’occhio capace di guardare e osservare il mistero delle erbe, i segreti di una corteccia d’albero, gli arcani di una pietra. Sorelle d’anima dei ‘mèntor’ antillani dei quali racconta Patrick Chamoiseau inTexaco. Sanavano carie dentarie: Tziu Beccari. Adagiavano empiastri ‘miracolosi’ a lenire scottature e ascessi, olii di balsamo a spegnere e incenerire le arsure dei ‘fuochi-di-sant’antonio’. Ricamavano ‘pungas‘ e ‘rettsettas‘ in grado di acceccare ‘s’okrumalu‘, beveraggi e filtri per ogni pena d’amore, ogni persistente sterilità… Non sempre funzionava.
Fu così che, alla fine, i miei decisero di affidare a ‘Tzia Maria durgalesa‘, a un suo ‘affumentu‘, la mia proterva pertosse. Non prima, s’intende, di averla sottoposta alle mai univoche diagnosi e sempre differenti terapie dei tre ‘medici’ di Bitti, alle polverine alchemicamente combinate in candide ostie ripiegate a regola d’arte – alchemica – dal ‘buttechariu‘ di fiducia. La mia pertosse se ne rise: continuò a squassarmi come una pianta malnata e malcresciuta sotto i colpi del maestrale… Che anni potevo avere? Certo meno di cinque: perché poi il maelstrom della tosse venne rimpiazzato dalla malaria. Un cranio rasato a zero, giallo come un campo crepato dalla sete – color’ ‘e pede astore – si sarebbe avvicendato per qualche anno alla garrota della tosse.
Fu così che, nell’antro della ‘brùssa‘ venne officiato ‘s’affumentu’. A nulla erano serviti, fino a quel giorno, polverine e impacchi di ‘semene de linu’ che dottor Linu – nomen omen – invariabilmente, inesorabilmente, faceva sbollentare sopra ogni nostro malanno. Con incontenibili querimonie di parenti e paziente di fronte alla perfetta refrattarietà della malattia di turno a decidersi a scomparire, del morbo ad ammorbidirsi. Due occhi miti perdutamente interrogativi, perdutamente senza possibile difesa di fronte al Male dell’universo, dottor Linu aveva invano proposto e fino alla propria capitolazione finale opposto il suo balsamo alla mia tosse: il seme di lino.- Ite bos ne paret: un’imbrastiu de semene de linu?…- E ite nos ne paret… si no lu idites Vois…Non restava altra carta da giocare alla sua medicina – che poi proprio cartesiana del tutto non era – che dichiarare la propria impotenza la propria resa e il proprio fallimento. Consegnandomi al fondaco diTzia Maria durgalesa . Dove la ‘scienza’ falliva, avrebbe soccorso la magia, ‘sas artes’ di una ‘brussa‘ di incontestata reputazione: sia pure senza carte di diploma alla parete. Ma naturale frequentatrice dell’Anima del Mondo…E i miei decisero: forse appena in tempo, prima di essere sradicato dall’ultima raffica di tosse. Permane di quel giorno, come una visione, questa estrema corsa in ‘clinica’: dalla casa di ‘Santumichelli’, ultimo avamposto di ‘Cadone’, al lastricato del corso, quasi soffocando sotto una ‘vressata’.
Tre gradini di pietra all’altro lato della barbieria di Tziu Pretumarìa. Una porta tanto per significare che c’era, eternamente aperta, il tavolato, l’unica stanza, il quadrato in pietra del focolare al centro sotto un cannicciatoannerito d’inferni, la tegola sbreccata, già pronta, sopra la quale si sarebbe deciso delle mie vie respiratorie… Sopra la tegola erbe prendono fuoco senza fiamma. ‘S’affumentu’ attende soltanto il mio inalare tra squassamenti rantoli sibili, sulle ginocchia che sono appena rotule e pelle. Una coltre nera mi nasconde per un tempo senza fine. Il fumo soffoca quasi, mentre lavora a sturare e liberare il mantice del respiro.
Tempo senza fine… ‘Tzia Maria durgalesa’ si aggira senza posa attorno alle quattro pietre, al fumo, alle mie rotule, al mio respiro. Salmodia parole di un altro mondo. Mai sentite, mai sapute prima. Mai sapute dopo.- E sono salvo. Avrei continuato a respirare. Ho conosciuto altri ‘mentor’ nella mia infanzia. Ne ho avuto la fortuna. Insospettabili sempre: tra medicina e magia, tra ‘religione’ e magia.
Un prete corpulento dentro una lisa tonaca nera: Bernanos lo avrebbe certo amato per la sua disarmata certezza di ‘grazia’. E in lui tutto era grazia, perché osservata e saputa in ogni cosa. Grazia nel suo volto devastato dal vaiolo, nei suoi occhi di nuvola in perenne transumanza: occhi che negli anni giovanili ebbero dimestichezza con il grilletto di una pistola forse più che con i versetti delle sacre scritture. Grazia nel suo orecchio paziente dentro il quale, dietro la grata di un confessionale o a cielo aperto che fosse, riversavamo l’intero ‘male’ della nostra pressochè inesistente e fragile carne adolescente. Quelle eruzioni cutanee, quei crateri, ascoltavano pazienti e ci assolvevano sempre: ‘tres babbosnòstros, tres avemmarias, tres groriapatres a su Koro ‘e Gesus… Vae in bon’ora e non bi torres prusu’. Ma ci ritornavamo. Ci saremo ritornati sempre… Il rosario penitenziale del ‘tres-pro-tres’ era la sua cura per i malanni dell’anima come per le ‘infamie’ del corpo: masturbazioni più che altro, una melagrana sottratta all’orto di ‘Tziu Barbetta’, una lattuga, due fichi, un raspo d’uva. Una cura, lo sapeva, che con nessun adolescente avrebbe mai funzionato.Almeno non quanto infallibilmente funzionavano – per furti di bestiame, sgarrettamenti, ‘irrobatorios’ di formaggi e salsicce all’ordine del giorno nell’immediato dopoguerra – i suoi micidiali ‘korfos-de-libru‘, con i quali ‘Segnor Tomas’ inchiodava anime e corpi: Segnor Tomas per tutti. E mai ‘don’ Tomas… Un grande ‘mentor’ anche lui. A modo suo. Ho conosciuto altre magie. La magia della notte di San Giovanni: i fuochi i giunchi il fiume le promesse i giuramenti i nodi… ‘in numene de deus e de santu juanne’. Già scomparsi, inghiottiti, nei miei anni, i riti dell”argia’, il lamento delle ‘attitatoras’ e la tragica magia del loro pianto ‘cuerpo presente alma a usente’. Conserverò nella memoria che si tramanda, il loro canto, sempre…