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Banditi sardi: Mariantonia Serra-Sanna “Sa Reina”

banditessePrimavera del 1899. Petella, giovane capitano dei carabinieri, mangia vermicelli al sugo in una trattoria di Nuoro e beve il vino viola d’Oliena sollevando il bicchiere e guardandolo controluce. Parla animatamente con un tenente e lo invita a bere con lui.

Visto cosi il capitano Petella, con il suo viso pallido, gli occhi febbrili sotto la fronte stempiata, nervo­so e affabile, sembra tutto meno che un uomo di ferrea volontà, il ca­stigamatti mandato dal governo in Sardegna per dare la caccia ai banditi del Nuorese e dintorni. Banditi feroci e sanguinari come ad esempio i fratelli Serra-Sanna che seminano da anni il terrore per tutta la Barba­gia di fine Ottocento. Anche il tenente e qui per la caccia ai banditi. Si chiama Giulio Bechi: su quell’avventura di polizia “coloniale” in Barba­gia scriverà più tardi un libro di grande successo, che si legge ancora, intitolato appunto Caccia grossa.

Una caccia (il titolo del libro, secondo Emilio Lussu, eroe leggendario della prima guerra mondiale, rivelava la mentalità militaresca dell’auto­re) che iniziò ai primi del 1899, quando approdarono a Golfo Aranci navi cariche di soldati inviati dal governo Pelloux per cancellare una volta per tutte i banditi dalla faccia della terra sarda.

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“Caccia grossa”, in Sardegna, è quella che si fa ai cinghiali. Ha delle regole precise, improntate a molto rigore. L’animale viene scovalo dalla macchia e inseguito dai cani e dai battitori. Questi hanno soprattutto il compito di spingere il cinghiale, con grida e spari a salve, verso le fosse dove l’aspettano i cacciatori con i fucili spianati. Molto spesso ci arriva sfinito dalla lunga corsa e azzannato dai cani. Quasi sempre, in quei passaggi obbligati, è facile bersaglio e non ha scampo. Qualche volta inferocito da una ferita leggera, riesce a forzare il blocco e ad avventarsi  sui cani stanchi e i cacciatori sprovveduti.

In Sardegna si fa della caccia grossa un rito tribale che celebra la legalità autorizzata dell’uccisione della vittima in nome di una festa comunitaria.

Il 67° reggimento di cui faceva parte il tenente Bechi, attraverso una serie di battute nelle quali i cacciatori erano soldati e carabinieri e i cinghiali banditi (e molto spesso non banditi) barbaricini, riuscì almeno per un certo periodo a decimare non pochi latitanti che con il cinghiale avevano in comune il territorio e la necessità di vivere sempre in fuga.

A leggerlo oggi il libro di Bechi trasmette invece la simpatia che l’autore sentiva per un popolo quasi leggendario nella sua ferocia, che viveva emarginato dallo Stato, «Una simpatia un po’ dall’alto», scrive Brigaglia, «rifatta sul mito del “buon selvaggio” caro ai romantici». Molti anni dopo Gramsci avrebbe detto ironicamente che i sardi non avevano apprezzato il libro di Bechi non perché «aveva fatto della Sardegna una jungla, ma perché aveva scritto che le donne sarde non sono belle».

Banditi come i Serra-Sanna, assieme a Mulas, a Berrina. a Pau e a Virdis dice Petella a Bechi sorseggiando il suo Oliena – hanno un banda di settantadue uomini pronti a tutto, che tengono in iscacco i carabinieri. Non passa giorno senza che uccidano qualcuno o faccian sparire qualche mandria. La discussione si allarga; entrano in argomento altri avventori.

Ma a un tratto una guardia civica irrompe trafelata nel locale. «Hanno ammazzato due», dice, «due cognati. Tornavano in paese con un carico di olive; uno di questi portava anche la moglie e un bambino. Hanno ucciso ì due cognati davanti alla donna e al piccolo. Poi sono montati a cavallo, hanno detto alla donna di raccontare a Nuoro chi erano autori dei delitti e sono scappati via come il vento».

Una donna che ha sentilo il racconto della guardia sbotta in una risata che continua fino a quando qualcuno la prende sottobraccio e la porta via. È la moglie di uno degli uccisi, resterà pazza per tutta la vita.

Per il corso di Nuoro in quel fine secolo non c’era giorno che. un discorso tira l’altro, non si finisse per parlare dei Serra-Sanna. Si poteva parlare, tanto per fare un esempio, di ciliegie e del fatto che, una tira l’altra, si finisce sempre per buscarsi un mal di pancia; come i morti ammazzali dai Serra-Sanna: uno tira l’altro e la strage è già bell’e pronta. Si poteva parlare di uccelli da caccia: si finiva per ricordare il pastore di Dorgali trovato nascosto tra i rami di un albero e abbattuto dai Serra-Sanna: gli avevano staccato la testa dal collo e gliel’avevano appesa a un ramo, le guance trapassate da un giunco. Anche quando il di­scorso era molto bello e delicato perché trattava di donne o di bambini si scivolava nell’umido pendio del sangue ricordando magari la madre con il bambino al petto uccisa dal bandito Solinas o il ragazzino scannato e ferocemente mutilato soltanto perche aveva trasgredito a un loro “bando”, che era una specie di grida, una vera legge che i banditi più temuti imponevano alla popolazione di un paese o di una campagna.

Un “bando” che si ricorda è quello del latitante Berrina contro il pos­sidente Antonio Dore, divenuto suo nemico. Dorgali 15 aprile 1897: «Guardate bene, paese di Dorgali: nessuno voglio di andare a servire a possessioni del signor Dore Antonio, nessuno voglio di portare bestia­me alla sua pastura per niente! Guai al servo che entra in casa di Dore! Ascoltate queste parole che vi voglio bene e per questo e che ve lo faccio pubblicare. Se avete volontà di passare la vita con piacere fate il vostro dovere. Mi firmo: delegato speciale di campagna».

«Uno strazio di corpi inermi», scrive Bechi, «crivellati da un trastullo di ferocia, di membra e di tronchi composti a osceno trofeo: e ciò in pieno sole, spesso nell’abitato, nei campi, fra i gruppi di mietitori, i qua­li assistevano senza un gesto, senza voce e lasciavano che l’assassino si allontanasse tranquillamente. Un certo Carrara, povero bracciante, sospettato dal latitante Berrina di spionaggio, fu da lui incontrato, una sera, mentre se ne tornava dal lavoro con una comitiva di circa cinquan­ta compagni a cavallo, molti armati di doppietta. “Smonta e inginoc­chiati”, gli ordinò il bandito. E freddatolo con una fucilata a bruciapelo, gli recise la testa con un colpo di coltello, levandola in aria trionfalmen­te. Poi si allontanò senza molestia».

A Sarule il bandito Solinas si firmava invece // Giustiziere senza codice. Nessuno osò mai tenergli testa, tranne il maestro elementare Giovanni Porcu. Davanti al bandito che gli intimava di chiudere la scuola restò fermo al suo posto fissandolo negli occhi. Ma alla fine, per motivi di sicurezza, dovette portare i suoi banchi in chiesa, scortato da due cara­binieri, E li continuò le sue lezioni.

Proprio nel corso di Nuoro, una sera, il tenente “continentale” ebbe la fortuna di veder passare la vera signora di Nùoro, Sa Reina, la Regina. Sorella dei due banditi Serra-Sanna, aveva contribuito, assieme al pa­dre, alla trasformazione della famiglia da modesti pastori a ricchi pro­prietari di case, di terreni e di quattrocento capi di bestiame.

Al suo passaggio tutti si davano di gomito. I più s’inchinavano. Maria Antonia incedeva altera, le forme robuste nascoste dal ricco costume smagliante di ori. candore di lini e rosso-sangue di porpora. Il viso eret­to, bello di una ardita bellezza, era come abbrunito dal nero profondo degli occhi. Una figura mediterranea, araba, forse, o profondamente orientale.

Il giovane tenente le piantò gli occhi addosso e la seguì, senza essere stato degnato della minima attenzione, finché la donna scomparve in fondo alla via. dividendo in due la piccola folla della passeggiala serale. Tutti dicevano che fosse lei la fosca ispiratrice delle sanguinose imprese dei fratelli: una creatura che poteva e non poteva essere donna o uomo in carne e ossa ma era, più semplicemente, «un accidente mandato da Dio sulla terra per dannazione del genere umano».

Raccontavano che in brache e mastruca (la giacca di pelle di pecora senza maniche dei pastori), barba finta e fucile in spalla percorresse ogni giorno chilometri e chilometri di brughiera, boschi e montagne per portare munizioni, cibo e notizie ai fratelli latitanti. Non si era mai data alla macchia proprio per mantenere uno stretto legarne tra i fratelli e il paese, che obbediva a ogni sua volontà. Una sua parola apriva le porta delle case, dei negozi, degli ovili. Alla sua presenza non c’erano borsa e cassetto che rimanessero chiusi. Se poi qualcuno osava rivolgerle anche la pur minima lamentela, lei rispondeva a voce bassa ma sicura! “Parle­rò con Elias». Bastava il solo nome di quest’uomo, il più feroce del fratelli, per far morire in gola a ricchi o poveri lamentele e richieste. Appoggiala da uomini influenti come preti, sindaci, deputati, ogni sua volontà rimbalzava immediatamente a Sassari, dove c’era qualcuno che non poteva dire di no. Narrano il Ferrerò e il Sighele in Cronache criminali italiane che un sottoprefetto di Sardegna, cui il ministero aveva chiesto una lista di individui da mandare a domicilio coatto, rispondesse: «Per fare scrupolosamente il mio dovere, dovrei mettere in testa l’onorevole X».

Ma il nome di Elias poteva anche essere pronunciato impunemente; bastava pronunciarlo con ossequio o con amichevole confidenza: «Compare Elias sì che si sa togliere la mosca dal naso…», «L’altro giorno nella grotta di compare Elias c’era anche Berrinetta, anche lui un bel fegato!». Quella grotta che si diceva amici potenti riempissero di provviste, vestiti, armi e munizioni e che i preti costellavano di amuleti salvatutto. Come il parroco di Lodine che, prima di un’impresa difficile, cadeva in delìquio per rivelare ai banditi i pericoli da evitare, facendosi pagare poi con una decima sul bottino. Esiste ancora un suo lungo scongiuro, scritto a beneficio del bandito Giovanni Lutzu, che secondo il parroco aveva il potere di preservare da ogni male chi lo portava addosso. Anche i poeti non risparmiavano la loro ispirazione per canta­re quei banditi sanguinari. Un poemetto per il feroce Derosas fu tradot­to anche in tedesco.

 

Mariantonia Serra-Sanna

Mariantonia Serra-Sanna (Sa Reina) in un disegno di Piero Masia

Il giovane tenente venuto da un altro mondo sapeva tutto questo e aveva una sola risposta: “Arrestarli, bisogna arrestarli subito”, pensava, “‘e tutto tornerà normale come qui non è mai stato. Bisogna agire subi­to. Non c’è tempo da perdere”.

A quella decisione resterà legata una data memorabile nella storia del­la Sardegna: quella che sarebbe stata chiamata “la notte di San Bartolo­meo”.

La notte fra il 14 e il 15 maggio del 1899 la città di Nuoro venne divisa in sette grandi rioni. Soldati, carabinieri e agenti di polizia, agli ordini del capitano Petella, vennero distribuiti in sette gruppi. Nei posti strate­gici vennero ammucchiate grandi quantità di manette, catene, corde. Tutto preparato in assoluto silenzio e secondo un preciso progetto. Tut­to il Nuorese fu coinvolto nell’operazione senza che nessun latitante sospettasse niente.

In città, dopo la mezzanotte energiche pedate e calci di moschetto scuotono la porta di “zio” Peppe, padre dei Serra-Sanna. Il vecchio, saputo chi sono gli ospiti, si rifiuta di aprire. Sì arrende solo quando gli uomini della legge stanno per buttargli giù la porta. Stupito che si possa osare tanto contro Giuseppe Serra-Sanna protesta gridando come un forsennato contro quel manipolo di gente armala che gli mette la casa sottosopra alla ricerca dei due figli lontani nella foresta e della figlia che dorme in una cameretta in cima a una scaletta di legno. Alla luce dì una candela, la donna è costretta ad alzarsi: gli agenti che hanno fatto irruzione si voltano dall’altra parte per darle modo di vestirsi. Non è più la donna altera e ossequiata da tutti che il tenente Bechi aveva visto passare per il corso di Nuoro. E una donna scarmigliala e piena di rab­bia che riesce ancora a mascherare il suo terrore con uno sguardo dì orgoglio ferito.

*Sa Reina», scrive il Tenente che aspetta fuori dalla stanza della donna, quasi per un residuo di antica cavalleria, «ha corrugate le sopracciglia corvine in una sola sbarra nera, saettando di sotto in su. Ansietà, so­spetto, orgoglio, rabbia impotente, c’era un po’ di tutto in quell’occhiata».

Prima di uscire dalla sua camera, con già addosso gonnelle e giubbetto scarlatto, getta uno sguardo di sfuggita su un cassone in un angolo. A una perquisizione immediata risulterà pieno di gioielli sardi di ogni tipo, pendenti, fermagli in filigrana d’oro e altre civetterie: fronzoli pre­ziosi dell’ornamento di una donna ricca e nel fiore degli anni. Ma nel cassone c’è anche un potente cannocchiale, una scatola di polvere da schioppo di marca inglese, documenti e il famoso “indirizzo del re” che tutti i banditi sardi tenevano in ricordo di quando, durante la visita del re in Sardegna, il mese prima, avevano promesso di costituirsi in massa purché la condanna venisse irrogata loro direttamente dal sovrano.

Bechi non lo dice, ma forse quella notte il tenente dal viso dolce e dal cuore di pietra, arrestando la fosca regina del sangue e della vendetta, che proprio in nome di quella regalità non si era lasciata sorprendere discinta, capì qualcosa in più di una terra difficile da comprendere per gente venuta da lontano e sempre per la stessa via degli invasori. Se poi nella sua cassapanca trovavano ospitalità tanto i gioielli che gli ordigni di morte, non c’è da stupirsi: la storia e piena di regine belle e sanguina­rie.

Quando la “benemerita” portò via, incatenati, la figlia e il padre che non riusciva a capacitarsi come a un uomo di settantacinque anni e del suo nome potessero essere legate le mani, parecchie famiglie si sveglia­rono, uscendo mute sulle strade. Durante l’arresto di altri caporioni si assiste a scene isteriche; congiunti che cercano d’impedirne la cattura, richieste ai carabinieri di seguire i parenti in carcere. La ”giustizia” li porta tutti con sé, donne, vecchi e bambini. Quando si arriva al “deposi­to di rione”, il mazzo degli arrestati e ben nutrito. Al deposito centrale, dove si trova il comando, è una folla. I dispacci che arrivano dalle altre “stazioni” del Nuorese parlano chiaro: 33 a Bitti. 27 a Lula, 40 a Dorgali. Ce n’è per lutti: non mancano i sindaci, i segretari, i consiglieri, persi­no qualche parroco. Alcuni latitanti (minori) si costituiscono.

Agli arresti succede il sequestro dei beni. Animali e cose vengono mar­chiati a fuoco con la sigla SG, ‘sequestro giudiziario”. Alla sola famiglia Serra-Sanna vengono sequestrati beni per un valore di seimila lire.

Fare il latitante non conviene più: da padroni dì campagne e paesi {«Frates meos», diceva prima Sa Reina, «non sunt latitantes, sunt senatores», i miei fratelli non sono latitanti, sono senatori), diventano o stanno per diventare tutti carcerati o morti.

Nei mesi successivi la lotta contro i banditi si sposta nelle campagne. I due fratelli Serra-Sanna, Elias e Giacomo, sono ancora vivi e sani alla macchia con Salvatore Giovanni Pau e Tommaso Virdis. Il 10 di luglio centinaia di carabinieri e di fanti si scontrano con la loro banda a Mor­gogliai, tra Oliena e Orgòsolo: «A Orgòsolo un comandante di stazione scaltro e ardito, uno di quei preziosi brigadieri che fioriscono qua in Sardegna, il brigadiere Cau, aveva anche lui già sentore del luogo do­v’erano rintanali i Serra-Sanna».

«A venti miglia circa dal paese, in uno dei pochi valichi dal territorio orgolese a quello dell’Ogliastra, due poggi si fronteggiano erti, minac­ciosi, tutti bosco e macigno». Fu l’ultimo rifugio dei banditi sfuggiti a tut­te le cacce. Il brigadiere Cau, vestito da contadino, si e spinto tra quegli anfratti ed e riuscito, con l’aiuto del cannocchiale e del suo istinto te­merario, a individuarne il covo.

Duecento e più uomini agli ordini del capitano Petella sono convocati a una battuta senza precedenti, che inizia in piena notte.

Il capitano organizza l’accerchiamento del monte fitto di vegetazione e di sentieri quasi impraticabili. Le poste, come nelle battute al cinghiale, sono sistemate in modo che gli uomini migliori fungano da battitori. Il primo posto, il più vicino al covo, non può essere che del capitano; il secondo è di Cau. Vengono poi un veterano della “guerra” ai banditi, il brigadiere Casco, e il carabiniere Aventino Moretti, tiratore infallibile.

Dopo di loro, sei carabinieri fra i migliori.

La squadriglia, divisa in due gruppi, penetra nella selva con decisione ma silenziosa come una biscia nel fieno. E come le bisce gli uomini di Petella strisciano per ore. Quasi sempre carponi, molto spesso a piedi nudi. Quando arrivano al covo notano un solo bandito di guardia. E il san­guinario Giuseppe Loddo detto Lovicu, il futuro assassino del brigadiere dei carabinieri Pietro Sini. Ha l’aria tranquilla come chi non ha motivo di sospettare di niente. È bruno e magro come un giovane animale abituato alla fame e alla sete. Semisdraiato per terra. ha una pezzuola bianca intorno alla lesta.

Un urlo corale, altissimo, lanciato dalle forze dell’ordine, rimbomba come un tuono sulle montagne. Lovicu imbraccia il fucile e spara all’im­pazzata, senza prendere la mira, senza vedere nessuno. Fischiano le palle alle orecchie dei militari; una sforacchia la giubba di Cau. Lovicu riesce a fuggire dentro una nuvola di fumo e di pallottole. La squadri­glia degli uomini di Petella si lancia in avanti verso il covo di roccia nascosto da una capanna di frasche ai piedi di un leccio secolare: un gruppetto di latitanti ne sbuca come un volo di calabroni erompe dalla tana di un vecchio tronco. Virdis, il bandito più corpulento, segue gli altri a fatica: è il primo a stramazzare passato da parte a parie da una palla. Giacomo Serra-Sanna si lancia a testa bassa nella macchia con l’intento di forzare le poste, ma cade non lontano da lui crivellato di colpi. Alto, corpulento, barba e baffi tagliali corti, precocemente stem­piato, Giacomo Serra-Sanna dimostra più dei suoi 34 anni. Ha addosso un costume nuorese. Finisce in quelle rocce una vita di sangue e di deva­stazione iniziata con una condanna a cinque anni di carcere per rapina. Da quel giorno fino all’ora della morte la sua vita non è stata altro che una minaccia per i nemici, verso i quali era implacabile. Al più acerrimo di questi, un certo Manca, dopo avergli bruciato l’ovile, aveva lasciato una fossa scavata, una fune e un coltello: e un biglietto in cui lo invitava a porre fine da solo ai propri giorni.

Gasco, che scorge tra la macchia la giubba rossa di Pau, gli si butta dietro come una tigre, ma stramazza per terra colpito dal bandito. Si fa lasciare un fucile carico e invita il capitano a inseguire i banditi senza pensare a lui. Riuscirà a cavarsela dopo una lunga convalescenza.

Non ha la stessa fortuna Moretti, che cade senza un lamento, colpito al cuore. Il suo bel viso fiero e un po’ allungalo impallidisce in un bale­no. I lunghi baffi spioventi e la corta barba scura fanno risaltare ancora di più quel pallore. A nulla gli è valsa in questo momento la sua meda­glia d’oro per la bravura di tiratore scelto che gli aveva permesso di fulminare con un colpo solo, trecento metri di distanza, il famoso bandito di Oliena Giovanni Crobeddu Salis, patriarca della macchia, “eroe” bonario e feroce allo stesso tempo, forse il più celebrato dei banditi sardi. Quel Giovanni Crobeddu Salis, alto, imponente, barbuto e terribile, che dopo aver sottratto la sciabola al conte Spada, maggiore dei carabinieri, durante l’assalto a una diligenza tra Nuoro e Macomer, non se ne era mai separalo, lucidandola con cura perché si leggesse più chiaramente la scritta sulla lama: Viva il Re di Sardegna.

A questo punto il destino si serve della calura del meriggio senza ven­to per indirizzare a compimento l’ultimo atto della tragedia: un soldato di fanteria spinto dalla sete lascia i compagni per dissetarsi a un torren­te vicino. Ma anche Elias Serra-Sanna e Pau scivolano scalzi dal cuore della macchia verso il fondovalle. Forse hanno sete anche loro, ma non e l’acqua che stanno cercando: sono riusciti già quasi a forzare il blocco e a sfuggire all’accerchiamento. Unico ostacolo quel soldato, ancora quasi un bambino, con la testa chinata verso l’acqua: due fucilale alle spalle, il ragazzo non ha neppure il tempo di risollevarsi. Ma lo sparo richiama l’attenzione degli altri carabinieri. Il primo a cadere e proprio Pau, una gamba e un braccio spezzali. “Piedade*, implora, lui che la pietà non sa neppure cosa sia. Ma quando i carabinieri stanno per am­manettarlo cerca di impugnare la pistola. Una scarica alla testa lo can­cella per sempre.

Elias vola di forra in forra come un felino. È già distante. Spicca un salto su un burrone. Una scarica di pallottole lo coglie nel volo. S’ab­batte al suolo: dal fondo del burrone non giunge neppure un lamento. La testa reclinata sulla spalla, la barba nera e foltissima che gli nascon­de il collo, le braccia abbandonate, sembra un viandante addormentato dopo un lungo cammino. Più giovane di sette anni del fratello Giacomo, era di lui più crudele e determinalo. Mancava in quel momento per chiudergli gli occhi la mano della sorella. Nel 1900 sa Reina sarà condannata a 18 anni di carcere. Dalla sen­tenza emerge chiaro il suo ritratto: «Triste figura di donna», si annoia, «dal cuore perverso quanto i di lei fratelli, crudele con le vittime, ecci­tatrice e consigliera con ogni modo possibile dei banditi di lei fratelli e degli altrettanto feroci loro compagni». Un ritratto più veritiero, forse, di una sua foto dove le decise linee del viso sono come addolcite da un certo sfinimento dello sguardo che può essere scambialo per rimpianto di una vita normale.

Tratto da: [easyazon_link identifier=”8854121649″ locale=”IT” nw=”y” tag=”testo_art-21″]Banditi di Sardegna[/easyazon_link] di Franco Fresi

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