Press "Enter" to skip to content

Archeologia, le grotte del Neolitico. I riti magici al Congresso di Londra

Eccezionale scoperta in alcune grotte del Sarcidano e della Barbagia di Seulo, All’interno di 12 anfratti scoperti da un’équipe di ricercatori cagliaritani guidati dalla geologa Giusi Gradoli, i luoghi di culto dell’uomo del Neolitico, finora inviolati.

Si erano infilati nel ventre della terra per cercare le pitture rupestri, i segni e i disegni della rock art, le testimonianze del passato impresse dagli uomini sulle pareti di roccia. E li trovarono eccome, i “quadri degli antichi”. Mai avrebbero però pensato, e sperato, di imbattersi nel paradiso dei neolitici.

Dodici anfratti, la maggior parte dei quali inesplorati, di fatto inviolati. «Grotte di culto, le hanno classificate gli scopritori. Dentro cui il tempo si è fermato a seimila anni fa, in un’età compresa tra il quinto e il sesto secolo avanti Cristo. Una scoperta considerata eccezionale e che ha già fatto il giro del mondo dopo essere stata annunciata dall’artefice del rinvenimento, la geologa cagliaritana Giusi Gradoli, presidente della società Comet-Valorizzazione risorse territoriali e vicepresidente di Issep, la scuola internazionale di preistoria europea, al convegno annuale dell’Associazione degli archeologi d’Europa.

LA SCOPERTA

«Per la prima volta in Sardegna, ma come è stato spiegato dal professor Robin Skeatse, archeologo dell’Università di Durhan, anche nell’ambito del Mediterraneo, erano stati trovati tanti luoghi di culto neolitico in grotta con così tante tipologie e soprattutto mai erano stati rinvenuti intatti e inviolati», spiega Gradoli. «Si tratta di un contesto unico che ci permetterà di applicare le più moderne tecniche di indagine e di ricerca grazie alle quali riusciremo a studiare questi eccezionali siti del neolitico inferiore e medio inferiore».

Grotte del neolitico nel sarcidanoLE CAVITA’

La ricostruzione della scoperta è un racconto denso di emozioni difficili da dimenticare. «L’indagine è cominciata quattro anni fa dopo il primo rinvenimento delle prime pitture rupestri.

Quando per la prima volta ci imbattemmo in questi incredibili luoghi utilizzati dai nostri antenati non nego che abbiamo pianto. Forse solo chi studia l’archeologia, le civiltà del passato riesce a capire quanta emozione si provi quando si capisce di essere i primi a vedere, osservare, toccare con mano questi ambienti. Tra l’altro difficilmente individuabili dall’esterno, visto che gli ingressi sono normalmente anfratti e pertugi strettissimi, quasi impossibili da superare. In uno di questi riuscii a entrare agevolmente, mentre l’uscita mi creò parecchie difficoltà tanto da farmi tenere di fare la fine del topo.

Riemersi assumendo una posizione fetale, con un braccio in avanti come spesso fa il bambino durante il parto. Era una grotta bellissima, una delle diverse grotte scoperte in Sarcidano e Barbagia di Seulo», racconta la geologa con in tasca un master in Archeologia del paesaggio. «Ci alzavamo alle quattro del mattino, col buio per non essere seguiti, e uscivamo dalle grotte col calare del buio. «Un giorno, anzi, una notte, dopo aver individuato il sito utilizzando le carte geomorfologiche e le fotografie aeree, arrivammo all’ingresso di una di queste grotte. Entrammo infilando prima i piedi per tastare la profondità, visto che non si riusciva a veder nulla. Una volta dentro demmo un’occhiata veloce convinti di aver fatto un buco nell’acqua.

“Usciamo”, ci siamo detti. Macché, ci bloccammo, ci accorgemmo che quello era un luogo liminale, lo chiamano così gli inglesi, e cioè uno di quei posti dove dal mondo dei vivi entri nel ventre della terra, passando dalla vita alla morte, come lo intendevano nel neolitico. Ecco, quella gotta era esattamente questo. Le pareti erano rosse, e non era ossido di ferro. Il pavimento era ricoperto di pietre non lavorate, non certo cadute dal soffitto ma sistemate ordinatamente dagli uomini.

Chiesi al fotografo di scattare molte immagini. In laboratorio quella grotta esplose in tutti i suoi particolari: una nicchia a forma di vagina, così come lo era anche l’ingresso. Di lato due cascate, al centro un pozzo per raccogliere l’acqua. E accanto una sepoltura. Ci siano tornati eccome, in quella grotta. Il pozzo era profondo un metro e mezzo circa e sopra, sulla parete, seminascosto da un velo di calcare bianco, un pannello con pitture nere di arte rupestre.

Rarissimo. Abbiamo mandato subito le fotografie a Robert Bednarik, il ricercatore australiano il massimo esperto al mondo di arte rupestre. La risposta ha confermato le nostre ipotesi, quei segni erano stati tracciati dalla mano di un uomo adulto con segno discontinuo. Ciò che si nota è una figura antropomorfa, un uomo con il volto animale o comunque con una maschera ornata di corna che ricorda i boes di Ottana. In mano un arco, vicino altre figure, forse animali. Era uno sciamano? Bisognerà studiare, analizzare», dice Giusi Gradoli.

IL PROGETTO

Lo faranno quest’estate, a luglio, quando partirà il progetto di ricerca autorizzato il 14 gennaio scorso dal ministero dei Beni culturali. Trenta scienziati di diverse discipline (archeologi, archeozoologi, paleoecologi, osteorcheologi) si ritroveranno nel cuore della Sardegna per dar vita, nei territori che fanno capo al Consorzio dei Laghi, a un’importantissima ricerca coordinata da Giusi Gradoli e Robin Skeates e condotta in stretta collaborazione con la Soprintendenza regionale diretta da Fulvia Lo Schiavo. Indagine così prestigiosa da aver ottenuto il finanziamento dalla British Academy of Humanity di Londra. «Saranno anche coinvolti professionisti del luogo con Antonello Atzeni e Paolo Marcialis di Nurri, titolari della società Archeogeo specializzata dei rilevamenti e mappature con il laser scanner», spiega Gradoli.

L’EVENTO

Insomma, sarà un evento davvero eccezionale per la storia dell’Isola. «Un’opportunità per scoprire il neolitico in Sardegna», dice la geologa cagliaritana. «Visiteremo ancora una volta la grotta con le due grandi sale dove abbiano individuato reperti eccezionali. Nella prima stanza il pavimento era interamente coperto di cenere e resti di ossa umane, E vasi di ceramica impressa, cioè ornata di segni incisi con il cardium o punte in osso, ossidiana e selce.

Probabilmente in questo luogo si cremavano i corpi dei morti, anche se ancora non siano riusciti a dare una corretta interpretazione». Quella notte le scoperte non finirono lì. «Illuminando con le torce notammo un gradino di ottanta centimetri e una fessura, l’ingresso di una seconda stanza. Circolare, tre volte più grande della prima. Con tante colonne intorno. Stalattiti e stalagmiti unite. E poi tante ceramiche tondeggianti e altrettanti focolai.

Nei recipienti ossi d’animale, di cinghiale e capra, persino uno zoccolo di un ungulato, quasi certamente di un cervo. E addirittura gusci di conchiglie, a dimostrazione che anche all’interno della Sardegna, nella dieta erano previsti anche mitili e molluschi bivalvi, dunque organismi raccolti in mare. Crediamo si tratti dell’area dei banchetti, delle feste rituali per salutare i morti. Compresa la donna col suo bambino che riposano in una delle tombe scoperte dall’équipe.
di Andrea Piras
(6 Aprile 2009)