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S’Accabadora e Padre Vassallo

Pubblichiamo l’ennesimo articolo relativo un’inquietante usanza diffusa in Sardegna in un passato non molto distante dai giorni nostri: quella della “Femmina Accabadora”. Per correttezza dobbiamo informarvi che stiamo riportando è integrale trasposizione di quanto pubblicato su http://web.mountain.net/~rhott/museo/femina.html.

Lo strumento tangibile del mistero della vita e della morte in Gallura lo si può trovare (e ammirare, fino ad un certo punto) nel Museo etnografico Galluras “frammenti della civiltà gallurese” del piccolo centro di Luras, in Gallura.

E’ un museo come tanti altri, con varietà di oggetti e “documenti”, recentemente premiato a livello internazionale, col suo bravo sito Internet, ma anche con qualcosa in più degli altri. Per rendersene conto non resta che visitarlo. Il giovane ideatore e direttore del museo, PierGiacomo Pala, non nasconde un certo orgoglio nel mostrare al turista questo misterioso strumento. E a buon diritto: perché, oggi come oggi, è l’unico esistente in Gallura. Niente di speciale: un rustico martello di legno d’olivastro stagionato, reso lucido dall’uso e per essere passato negli anni in tante mani. Ma non è un martello normale costruito da un’artigiano: è un corto spezzone, lungo 42 centimetri e largo 24. Il manico, corto e robusto, consente una presa sicura per assestare un colpo pesante e deciso.

Veniva usato da li fèmini agabbadòri (sas accabadoras in lingua sarda settentrionale) le donne, cioè, incaricate di “finire” (in spagnolo acabàr) un moribondo che soffriva troppo senza poter morire. L’abate Vittorio Angius, intorno al 1832, scrive a questo proposito: Accabadoras. Viene questo vocabolo dal verbo accabare, il quale avendo la sua radice in cabu (capo) darebbe ad intendere ‘dare al’, o ‘dare sul capo’; propriamente “uccidere percuotendo la coppa”, e figuratamente ‘trarre a capo’ o ‘condurre a fine qualche bisogna’. La definizione – che trae origine dal sardo acabài/agabbare (a sua volta dallo spagnolo acabàr) ed ha il preciso significato di finire, portare a compimento – è riferita ad una donna cui sarebbe spettato il compito di abbreviare le sofferenze del moribondo quando l’agonia si fosse protratta troppo a lungo. Di compiere, insomma, un atto di pietà. Il capitano di marina Wiliam Henry Smyth (1828), in un suo diario di viaggio illustrante la situazione della Sardegna dell’epoca, afferma:

“Nella Barbagia vi era la straordinaria usanza di strozzare una persona morente nei casi disperati: quest’atto era compiuto da una solariata chiamata accabadòra o finitrice, ma il costume fu abolito sessanta o settant’anni fa dal Padre Vassallo, che visitò quei territori come missionario”.

Quanto riportato dallo Smyth coincide, come datazione, con le affermazioni dell’abate sardo Vittorio Angius il quale, nel “Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna” (1883), localizzava l’usanza a Bosa dove “cotanta barbarie” sarebbe cessata a metà del XVIII secolo.

Va segnalata la citazione di una accabadòra nel romanzo storico “Folchetto Malaspina” (edito intorno al 1830) del torinese Carlo Varese, peraltro, non ha mai visitato l’isola e per il suo lavoro si è valso di diversi testi fra cui “La Storia di Sardegna” di Giuseppe Manno.

Anche un’altro scrittore, l’inglese John Warre Tyndale (1849), mostra di credere all’esistenza di questo personaggio che, a suo avviso, potrebbe essere anche di sesso maschile, e addirittura ne amplia le prestazioni comprendendovi la soppressione dei “vecchi malati e inabili” allo scopo di “sollevare i familiari dalle loro pene”. Charles Edwards (1889) che identifica “una forma di accabadùra del XIX secolo” nella fiducia che i sardi nutrivano verso le fattucchiere ed i santi guaritori, mentre il medico “è chiamato quasi per formalità sul letto di morte: e anche in questo caso, come pure atto formale, egli può somministrare la dose di olio di ricino che, a quanto mi viene detto, è il rimedio palliativo usato per la maggior parte dei mali”.

Pure Edwards parla di accabadòres maschili e colloca l’origine del macabro rituale nel III secolo a.C. Nel suo libro “Sardinia and its resources” (1885) anche un’altro scrittore d’oltre Manica, Robert Tennant, sembra credere all’esistenza delle accabadòras.

Padre Antonio Bresciani (1850) riferisce, invece, quanto appreso da parecchi sacerdoti “che trovandosi ad assistere ebbero delle gagliarde lotte colle figliuole, le quali, veggendo il padre o la madre ansare e penare, e tardar troppo a morire, chiedean licenza al confessore di poter togliere loro dal collo la medaglietta e lo scapolare”.

Una conferma viene da Francesco Poggi (1897) il quale riferisce che “in alcuni paesi della Gallura e del Logudoro, di fronte alla morte vicina, sia pure di persona cara, si mostra, in generale, una rassegnazione davvero unica. Talvolta anzi la famiglia e i parenti del malato, quando la vedono più di là che di qua, per abbreviargli le sofferenze dell’agonia, si tolgono d’addosso certe relique (rezettas), certi amuleti (pungas) che, secondo loro, avrebbero la virtù di tenerlo in vita dei giorni ancora e recitano magari qualche rosario affinché il poveretto si spicci presto”. Altre pratiche per abbreviare l’agonia consistevano nel sistemare immagini sacre dentro il letto del moribondo, collocargli una sedia sotto il letto, mettergli un pettine sotto il cuscino o un minuscolo giogo di buoi sotto il capo, ed altri scongiuri di ogni genere. Pettine e giogo, che talvolta venivano fatti baciare al moribondo, non dovevano esser bruciati dopo il decesso poiché si credeva che la lunga agonia fosse la punizione per un atto identico compiuto dall’uomo nel corso della sua vita.

Il piemontese Alberto Della Marmora, nel “Viaggio in Sardegna” (1826), afferma testualmente: “Si e preteso che i Sardi avessero anticamente l’usanza di uccidere i vecchi, ma la falsità di questa affermazione è stata già dimostrata da alcuni scrittori. Io però non posso nascondere che in alcune zone dell’isola, per abbreviare la fine dei moribondi, venivano incaricate specialmente delle donne; si è dato loro il nome di Accabadura, derivato dal verbo accabare/finire. Questo resto di barbaria è felicemente scomparso da un centinaio d’anni”.

 

FONTE: http://web.mountain.net/~rhott/museo/femina.html