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Mio padre e’ stato Minatore ….

Esiste in rete un forum speciale, dedicato alla nostra amata Sardegna, aggiungerei il migliore nel suo genere. E’ frequentato da persone disponibili, competenti in diverse materie relativamente alle diverse sezioni del forum stesso, oppure da semplici lettori che sporadicamente si palesano al resto della comunità…

Si tratta del forum www.gentedisardegna.it in cui qualche giorno fa è cresciuto un post che ho considerato uno dei migliori che io abbia mai letto.

Si scrive e si descrive, (il post è tutt’ora attivo), della vita di chi ha lavorato nelle miniere della nostra terra, di chi ci ha sofferto, di chi ha stretto i denti per poter portare un tozzo di pane alla propria famiglia, rimanendo giorni lontano da casa e di chi vi ha perso la vita, richiesta come tributo dalla montagna. I racconti vengono scritti dai figli e dai conoscenti di questi minatori e sono sicuro vi toccheranno il cuore, come hanno fatto a me. Ringrazio queste persone, ora anziane o non più tra noi, perchè tramite la loro vita che ha arricchito quella dei loro figli, un pò della loro forza e saggezza è giunta anche a me…

Ora vi invito a leggere il racconto gentilmente concesso da Annika Satta. Buona lettura…

Mio padre e’ stato minatore a Montevecchio per ben 25 anni (dai primi anni 50 fino al 1975 ).
Rientrava dall’America dove era stato “Prisoner Of War” (prigioniero di guerra, ovviamente la seconda mondiale).

Torna al suo paese dove ormai lo si credeva morto e deve ricominciare una nuova vita. In quanto figlio di contadini e con solo la terza elementare di istruzione non aveva grande scelta o la campagna o la miniera e giusto in quel periodo c’erano i bandi della ricerca di lavoratori.

Quasi trentenne (allora si era Uomini maturi) e temprato dalla vita, dalla guerra e dalla prigionia si decide per la miniera.
Organizzati i lavoratori passava ogni lunedi’ un pullman della societa’ mineraria, che prendeva, via via nei paesi, queste persone  le portava direttamente all’imbocco della miniera o pozzo, cosi’ venivano chiamati gli ingressi, a seconda della zona: Pozzo S.Antonio, Piccalinna, Pozzo Gal...e via discorrendo.

Arrivavano dai paesi con i pochi indumenti di loro proprieta’ (molto essenziali), sul posto venivano poi assegnati degli alloggi; normalmente gli uomini non sposati accedevano all’ “Albergo del Minatore” dove venivano “accuditi” nel quotidiano da donne con mansioni varie, cuoche-vivandiere e altre che si occupavano della pulizia.

Nelle camere, molto spartane, si aveva una branda a testa e un piccolo stipetto per le cose personali, grandi finestre all’inglese e nei corridoi svariati caminetti a legna per il riscaldamento questi sicuramente non erano sufficenti ma davano comunque l’impressione di stare al caldo.

I muri erano perennemente neri causa il fumo prodotto dai caminetti stessi e l’imbiancata annuale dello stabile era fatta dagli stessi minatori per dare quel tanto di salubrita’ all’ambiente in cui praticamente mangiavano e riposavano solamente. Per eventuali distrazioni disponevano di un “dopolavoro” in genere frequentato dai giocatori di carte incalliti e dai bevitori – molti di loro lasciano in questo locale anche la meta’ della loro paga mensile.

Ascensore in miniera Non posso parlarvi del primo giorno in assoluto; mio Padre diceva spesso che il terrore nell’entrare in quelle gabbie di legno (che i “direttori” si ostinavano a chiamare ascensori)  era sempre identico, anche dopo tanti anni.
In pratica sei o sette uomini (dipendeva dal turno) all’ingresso del pozzo, entravano all’interno di “gabbie di legno” e venivano calati all’interno della Terra tramite funi collegate agli “Argani”, azionati questi da operai addetti a questa funzione.

Venivano calati in vari “strati” chiamati in gergo “scalini” i quali indicavano la profondita’ di discesa, es. 100 mt. sotto, 200.mt. sotto e cosi’ via fino anche a 400 mt.sotto. In ogni scalino c’era “un cantiere” ovvero le creazioni di gallerie scavate per poter in seguito con l’uso delle mine e dei Perforatori estrarre i vari minerali.
Questi “ascensori” erano come ho detto azionati da uomini, che fermavano l’argano nel punto in cui loro credevano che gli operai avessero raggiunto la destinazione, basandosi solo sulla loro esperienza (parlo dei primi tempi ovviamente,non di quelli attuali). l primo minatore sentendo la fune fermarsi capiva di essere arrivato e apriva la porta della gabbia finendo pero’ nelle profondita’ piu remote della terra. Gli altri non potevano far altro, che ascoltare le sue urla. In seguito verranno installati altri sistemi di fermo.

Ingresso in minieraOgni minatore aveva con se la propria “candela” una sorta di lampada funzionante con una miscela di acetilene (spero di non ricordare male il tipo di sostanza), la quale produceva una sorta di fiammella (immaginate un saldatore) piu’ semplicemente chiamata “candela a carburo”.
Le temperature del sottosuolo variavano dal tiepido al caldissimo. Immaginate il lavoro di questi uomini, sotto terra centinaia di metri sotto, nel buio totale e una umidita’ tale da togliere il fiato. Nessuno di loro aveva una mansione “specifica” nel senso che a seconda del turno effettuato, potevano: posizionare mine,
utilizzare i perforatori a secco nel senso che non erano muniti dei moderni congegni ad acqua o ad aspirazione come quelli attuali e/o carotatrici. Respiravano quindi tutte le polveri che venivano prodotte dallo “sfaldamento” della roccia.
Oppure trascinavano con la sola forza delle braccia i carrelli carichi del “primo prodotto”, funzione questa prima destinata ai muli i quali venivano calati all’interno della miniera fino a concludere la loro esistenza sempre all’interno di questa, quando ormai completamente ciechi e vecchi risultavano inservibili.

I turni duravano mediamente 8 ore e molti minatori per stagioni intere non vedevano mai la luce del sole e, specie in inverno, quando si usciva dal pozzo era ormai buio. La loro dotazione di strumenti ed abbigliamento da lavoro, era ridotto ai minimi termini. La societa’ mineraria assegnava le tute in tela pesante, oppure giacca e pantaloni dello stesso ruvido ma fresco tessuto, un paio di scarponi neppure di buona qualita’, duravano cosi poco in quell’ambiente, dovevi quindi portarli fino al consumo totale, finche le tue luride e consumate calze non sbucavano dalla punta, e l’immancabile candela a carburo, unica luce e compagna del tuo turno. Certo c’erano i tuoi “colleghi” ma spesso si aveva poca voglia di parlare, ognuno rinchiuso nei propri pensieri tanto ognuno conosceva la storia dell’altro ripetuta ossessivamente fino alla noia.
Era storia comune la poverta’ , la fame, la guerra, i lutti in famiglia. Niente di allegro quindi, se non per qualche rarissima occasione. Si stava chini, concentrati, impauriti a forare la roccia, spalare, riempire i carrelli, pieni di polvere fino alle ossa e il terrore di una esplosione che poteva in un attimo interrompere la tua ancora breve esistenza.

Come purtroppo spesso capitava gli incidenti in galleria erano piuttosto frequenti. L’esplosione delle mine era quella piu’ temuta, in quanto bastava una piccola distrazione nel posizionamento o la poca esperienza dell’addetto. Altri infortuni erano provocati da sfaldamenti di roccia, distacchi del minerale, esplosione di gas e di polveri, asfissia e avvelenamento sempre dovuta ai gas.

Anche mio Padre non fu immune e fortunatamente gli ando’ bene.
Durante lo scoppio di una mina trovandosi troppo vicino all’imbocco del foro, la deflagrazione gli provoco’ la perdita totale dell’udito (fortunatamente ad un solo orecchio). Ogni qualvolta avveniva un infortunio avevano una unica possibilita’ di avvisare per i soccorsi cioè comunicare con “l’ingabbiatore” o ” l’arganista”, i quali stavano in superfice, utilizzando nei primi tempi  una specie di “codice Morse” con la corda attaccata alla “gabbia” (ascensore) – un colpo breve 2 colpi brevi 1 colpo breve e uno lungo e cosi via.
Successivamente impiantarono dei pulsanti collegati ad un telefono a manovella. Gli infortunati venivano quindi trasferiti all’ospedale di Montevecchio, per quei tempi una struttura all’avanguardia, con medici specialisti, in ortopedia, pronto soccorso e sopratutto malattie respiratorie. Quelle piu’ frequenti oltre alle asfissie, le polmoniti, brochiti croniche, ma la vera spada di Damocle del minatore era la                        “silicosi -asbestosi“, ossia i polmoni e i brochi vengono categoricamente “impregnati ” dalle polveri e frammenti microscopici di minerale da restare li’ depositati senza uscita, impedendoti, piano piano la normale respirazione.
Perforatori in miniera..Ne morivano tanti di giovani, lasciando la loro giovane sposa vedova e figli piccoli da sfamare.Queste giovani donne sfortunate, dovevano a loro volta cercare lavoro in miniera, non avendo altra scelta. C’era un settore di miniera in superfice, all’aperto, chiamato “laveria” dove arrivavano i minerali ormai frantumati e posizionati su dei “corridoi” rialzati ad altezza di “ventre” dove scorreva in continuo dell’acqua. Le donne dovevano “lavare” e scegliere il minerale, che andra’ successivamente smistato e trasportato da altri lavoratori. ueste donne semplici, povere, spesso scalze, raggiungevano il posto di lavoro a piedi dai paesi limitrofi (Arbus,Guspini), con qualsiasi tempo, pioggia, grandine, sole cocente, trascinandosi dietro i propri figli ancora assonnati e un tozzo di pane in tasca, unico loro sostentamento.
Se penso al loro passaggio quotidiano molto mattutino, le vedo li’ in fila indiana, le loro gonne scure, forse qualche blusa a fiori,il fazzoletto nero ripiegato sulla testa, i loro piedi diventati cuoio ormai insensibili, a strattonare i figli, a sgranare il rosario e aggiungere alla pioggia le loro lacrime e tormenti. Muli in minieraNormalmente il pullman dell’azienda mineraria che prendeva gli operai ogni lunedi mattina all’alba, riportava questi ai loro paesi il sabato mattina. La maggior parte di loro sono giovani e scapoli e giustamente devono coltivare i loro “amori” e dimenticare la miniera almeno un paio d’ore per ritrovare il calore tra le braccia delle loro ragazze.
Cosi fu anche per mio padre che aveva gia’ 30 anni e una grande voglia di mettere su famiglia.
Tra tante che le stavano intorno (diceva lui….) scelse una giovane ragazza di appena 18 anni, mia madre.
Mio nonno non lo vedeva di buon occhio !!! troppo grande…troppo vissuto.. cristionada puru s’americanu (parlava anche in americano).
Alla fine si arrese, verificato che era una buona persona e non poteva resistere alla contentezza della propria figlia che aspettava tutti i sabato mattina l’arrivo del pullman della miniera. Diede il consenso alle nozze dopo pochi mesi. Mettono su casa e dopo 3 maschi nasco io, la seconda “donna” di casa dopo mia madre.

Mio padre intanto continua a mantenere la sua branda all’albergo dei minatori. Essendo ormai sposato e con figli, poteva richiedere un alloggio familiare e trasferirci tutti noi. Questo non successe in quanto in quel periodo avevano bloccato la costruzione di nuovi alloggi quindi continuava a fare il pendolare settimanale, fino al giorno che l’azienda mineraria informo’ gli operai pendolari che il solito pullman non sarebbe piu’ passato per i paesi interni, ma finiva la corsa a San Gavino (circa 35 km di distanza da montevecchio).
In pratica si arrangiassero a raggiungere il posto di lavoro. Avevano scelto San Gavino in quanto la societa’ aveva costruito una linea ferroviaria privata riservata a vagoni di minerale destinato alla locale “Fonderia” dove trattavano l’argento, piombo e altro.
Successe quindi che gli operai dei paesi (parlo di Ussaramanna, Siddi, Pauli Arbarei, Lunamatrona) distanti mediamente 25 Km da San Gavino dovettero camminare attraverso i campi (per accorciare le distante) e raggiungere a piedi (con qualsiasi tempo) il pullman della societa’ ogni lunedi mattina e stesso percorso a piedi per il rientro del sabato.
Dopo pochi mesi di questo sfibrante tran-tran, i miei genitori decisero il trasferimento a San Gavino (fu il mio primo traslocco, avevo solo 4 anni).
Io e i miei fratelli ci adattammo da subito, poi c’era il treno che portava lontano. Gia’ da allora avevo voglia di conoscere luoghi oltre quel treno). Mamma invece ne’ risentì un po di piu’ era spesso triste, avendo lasciato in paese i suoi genitori, le sue amiche, poi piano piano si ambiento’ e tutti non si vedeva l’ora che fosse sabato mattina. La nostra casa era a pochi metri dalla fermata del pullman della miniera e il sabato era festa grande. Mamma ci svegliava presto, ci lavava, ci pettinava per bene, controllava che fossimo in perfetto ordine, ricordo ancora come “tiravano” gli elastici nei capelli, allora mi faceva “le codette” diceva lei “babbo ti vuole cosi…”
Lei intanto andava a preparare il bagno caldo per babbo e mentre uscivamo dal cancello apriva una finestra, ci controllava e ordinava a mio fratello (il maggiore) “piga sa manu de sa pippia” “dona attenzioni” (prendi la mano della bambina e prestagli attenzione). Io la guardavo sbuffando…. uffa non ero “sa pippia” (la bambina) io mi sentivo gia’ grande. Nel frattempo cominciava a sciogliersi i capelli, una massa corvina…. come erano belli i suoi capelli !!!! Si stava preparando per l’arrivo del suo sposo.
Si apriva lo sportello del pullman ed “ecco babbo !!!!“, dicevamo noi all’unisono, la nostra Roccia, con la sua tuta porca, i capelli spettinati, nero, nero, oddio com’era sporco, con addosso quell’odore penetrante di “carburo”. Non posso spiegare quell’odore, solo chi l’ha conosciuto sa’ di cosa parlo. Aveva sempre il “tascapane” infilato sulla tuta a mezzo torace (una sorta di borsa di tela) e noi gli giravamo intorno – “Babbo babbo !! cosa ci hai portatoooo !!” –  diceva – “Pazienza pazienza adesso entriamo a casa, non toccatemi che vi sporcate”. Per quei pochi metri lo seguivamo in fila indiana (tranne io, mio fratello quasi me la stritolava la mano, dopo le raccomandazioni di mamma).
Dopo il bagno entrava in cucina, bello, pulito, pettinato e sbarbato. Era un’altra persona e io non resistevo, mi buttavo addosso a lui e gli riempivo le guance di baci.
Lui allora diventava severo e mi diceva – “Annika smettila, cosa sono tutte queste “smancerie” ?
Voleva essere baciato ma mi diceva sempre “Me ne basta uno”, ma lo diceva solo per me, in quanto femmina, non voleva che avessi poi con tutti questo atteggiamento.  Diceva – “Queste cose “dolci” da romanzetto…..” –  e intanto faceva l’occhietto complice a mamma…
“Dai Babbo cosa ci hai portato ????”,
“Vi ho portato i corbezzoli ..un frutto dolce dolce… di una pianta che sta vicino alla miniera…”
Mamma era gia’ pronta, aveva diviso in quattro piattini quei frutti tondi, piccoli, arancioni o screziati di rosso quelli piu’ maturi.
I miei fratelli se li ingurgitavano in fretta, poi guardavano il mio piatto ancora pieno. A quel punto babbo diceva – “Annika perche’ non mangi i corbezzoli? Gli ho portati per te sono dolci dolci..”
Io gli rispondevo – “No babbo… non li voglio…non mi piacciono le “smancerie”.
A quel punto mi prendeva in braccio e mi consumava le guance di baci.

Cernitrici di minerale

Arrivo’ anche il giorno della tragedia.
Fu’ affiancato a mio padre ormai esperto un giovane venticinquenne.
Oltre il lavoro, cercava di tenerlo tranquillo, perche’ la paura e’ sempre la tua compagna di lavoro. Divennero presto molto amici e mio padre gli svelava i piccoli segreti, le attenzioni da tenere per rimanere li dentro il piu’ possibile vivi.
Quel giorno si avvicinava la fine del turno di lavoro, spingevano sulle rotaie l’ultimo carrello. Gli operai sono in due affiancati e spingono curvi a tutta forza.
All’improvviso si stacca un lastrone di roccia che trancia di netto la testa del ragazzo. Gli altri operai che hanno assistito alla scena azionano in tutta fretta l’allarme mentre mio padre resta fermo, chino sul vagone, annicchilito, incredulo, shockato.
Non riescono a staccarlo dal vagone, non reagisce. Doppio allarme……
Non so quanto tempo sia passato, neanche lui lo ricordava, ma quando riescono a tirarlo fuori ricorda di aver corso disperato urlando con tutto il fiato che aveva in gola, finche’ i suoi compagni non riescono a raggiungerlo e portarlo in ospedale dove restera’ in semicoma da shock, sotto calmanti per parecchi giorni.
Eh si che aveva fatto anche la guerra e di morti poteva raccontarne in quantita’…..
Chiese e ottenne il trasferimento “in superfice” al deposito minerali. Non riusciva piu’ ad avvicinarsi all’ingresso della miniera.
Per molto tempo visito’ la famiglia del ragazzo, tenne i contatti con loro e nelle sue pur scarse possibilita’ gli aiuto’ economicamente. Purtroppo pero’ arrivo’ il tempo  che la direzione gli chiese di rientrare in galleria. Avevano bisogno di personale esperto.
Babbo, da quel giorno era cambiato, pensava continuamente a quel ragazzo, lo vedeva come un figlio. Era una roccia e comincio’ a deprimersi, non accettando che gli imponessero di rientrare in galleria.
Il suo fisico e il suo cervello lo rifiutava, non vedeva via d’uscita voleva andare via, cambiare vita…
Mamma lo appoggiava… gli diceva – “Fai quello che senti..noi siamo con te….
Si rifuggio’ nella preghiera, ritiro’ fuori un vecchio “scapolare” con l’effige della madonna che sua madre le mise al collo prima di partire in guerra. Lo rindosso’… e prese la decisione.
Lei.. (rivolto alla Madonna).. mi accompagnera’…. e mi dara’ la forza di tornare la’…. non posso lasciare soli i miei compagni….hanno bisogno di me…..”
Dopo un’anno dall’incidente rientrò in galleria accompagnato dal solito “terrore”, ma si sentiva piu’ protetto.
Prima di entrare in ascensore baciava il suo “scapolare” e si faceva forza, pensando che doveva portare a casa il pane.

Volevo un attimo riprendere,il discorso miniera di Montevecchio,scrivendone anche in modo positivo, ovviamente visto da me.
Con il passare degli anni, piano piano anche la condizione di lavoro dei minatori migliora, arrivano mezzi meccanici, sistemi piu’ moderni, cambia la dirigenza, arrivano nuovi ingegneri i quali pensano in qualche modo di premiare i minatori, mirando sopratutto alle loro famiglie.
Gia’ esistevano scuole, colonie montane…. fecero costruire la colonia marina piu’ moderna in Sardegna, a pochi kilometri da Montevecchio..
Nasceva “Funtanazza”….. (attualmente in disuso…e pare sia stata acquistata dall’attuale governatore Soru).
Riservata esclusivamente per i figli dei minatori, dotata di ben 2 piscine, istruttori di nuoto, sorveglianti etc.
Situata nel mezzo di una grande pineta, posta in fronte al bellissimo e azzurro mare della “Costa Verde”, invasa dai profumi della rigogliosa macchia mediterranea.
Con una breve discesa si accedeva alla bellissima spiaggia, e ricordo con piacere lo svegliarsi a suon di musica, l’alza e ammaina bandiera quotidiano, i giochi, le passeggiate in pineta, ‘affetto delle sorveglianti, pronte ad asciugare le lacrime dei primi giorni …(nostalgia di casa).
Inoltre furono istituite delle borse di studio sempre per i figli dei minatori che si dintinguevano nello studio.
Io fui una di questi, grazie ai miei voti ( non ero secchiona..era un dono di natura).
Alla tenera eta’ di 11 anni “saltavo il mare”, sola con una accompagnatrice, destinazione Roma.
Una scuola particolare privata ma riconosciuta dallo stato (solo i ricchi potevano permettersela), era strutturata come un “college Svizzero”.
Si studiava quasi tutto il giorno e oltre le normali materie si studiava teatro, canto e una seconda lingua straniera, e spesso effettuavamo delle gite culturali, visitando diverse citta’ italiane, arrivando fino in Austria. Tutto cio’ non avrei mai potuto farlo con il salario di un minatore.
Avevamo la “divisa” composta da gonna scozzese verde/blu’, camicia bianca, pullover blu’, calze grigio perla e mocassini Blu’.
Il sabato e la domenica si era libere dallo studio e trascorrevo il fine settimana a casa di mia zia che abitava da molto tempo a Roma. Mi piaceva tantissimo girare la citta’, mi e’ sempre rimasta nel cuore.
Successivamente l’ho visitata piu’ volte e nel 2000 sono andata a rintracciare la “mia scuola” scoprendo che esiste ancora, ma non piu’ come “college”.
Dopo il primo anno pero’ non volli piu’ ripartire, mi mancava troppo la mia famiglia, i miei amici e tutto il resto e, col senno di oggi, posso dire che quello fu’ un errore da parte mia, ma ero troppo piccola per capire….

Vorrei terminare dedicando qualche parola a mio padre…. a tutti quei padri la cui vita gli somiglia e ovviamente a tutti i minatori e i loro figli..
Dopo i 25 anni dedicati alla miniera viene premiato dalla societa’ con una bellissima targa in argento e una buona pensione.
Nel fratempo la famiglia e’ cresciuta e si dedica completamente a noi, aiutandoci nelle piccole ambasce quotidiane di adolescenti, o da poco adulti.
Legge tantissimo, vuole recuperare il sapere, che non ha avuto modo di conoscere prima. Filosofeggia pure e noi pendiamo dalle sue labbra. Ci circonda di serenita’ e ogni tanto deve prenderci “per il bavero” per rimetterci in “riga”. Gli sbandamenti giovanili sono dietro l’angolo per tutti.
Insomma e’ stato proprio un grande Padre.
Adesso non c’e’ piu’… Ci aveva preparato al momento.
Soleva dire – “Figli miei non vi inquietate… la morte fa’ parte della vita… e’ inesorabile….vivete il presente con la valigia pronta….
Il giorno della sua “partenza” al rientro dal camposanto, Mamma ci ha voluti seduti attorno al tavolo per leggerci la lettera che babbo ci aveva lasciato….

Diceva:

Ho sofferto tanto in questa vita…non ho ricchezze materiali da lasciarvi…
Ma ho anche gioito con voi miei Cari….
Tenete sempre a mente che  vi ho Amato ..tanto.. tanto.. tanto…

Babbo.

Questo e’ stato il suo testamento…….ma…non sono piu’ racconti di miniera.

Annika Satta