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Mellus custu che una maladia! Gravidanza e maternità in Sardegna

gravidanza e maternità in sardegna

Si parla di maternità, si parla di madri e di figli, si parla naturalmente di Sardegna. Di quello che normalmente non si parla è dell’atmosfera che circondava gravidanza, parto, puerpera, nascita e bambino, cambiata come possono cambiare le giornate di fine agosto qui, sull’isola. Immediatamente, senza preavviso. Che ad aver avuto più tempo ci saremmo forse fatti trovare vestiti a festa?

Parto e maternità sono stati strappati alla natura. Non è più lei a scegliere il quando, il dove, delle volte addirittura il perché, è tutto già scritto in quelle veline imbucate all’indirizzo della futura madre: posizione del feto, sesso, data di nascita, alimentazione da seguire, movimenti da non fare, psicologia con la quale avvicinarsi al parto.

Il parto, la maternità, non sono più cosa della natura e forse per questo la tradizione strappa un grosso sorriso e qualche dubbio ostinato in chi ascolta, quando racconta delle madri di ieri. Ma come diavolo facevano a mettere al mondo figli, senza ginecologhe, ecografie e corsi pre-parto?

Meno d’un secolo è trascorso, e abbiamo già dimenticato. Parlare con una nonna, con una zia attempatella, con un’anziana conosciuta per caso, guardare le foto antiche, soffermarsi su d’un libro di ieri potrebbe rinfrescare la memoria e riportare a quando il saluto più gradito suonava grosso modo così “Saludi e fillu mascu [2]!” e a quando l’arrivo d’un figlio non necessariamente era una festa, ma era pur sempre meglio che una malattia.

Fra gli aspetti che più mancano alla maternità di oggi e che rendevano più misteriosa quella di ieri, le previsioni sul sesso del bambino che sarebbe nato di li a poco. Femmina se il ventre fosse stato tondeggiante, maschio ovviamente se avesse assunto la caratteristica forma d’un melone. Ognuno diceva la sua e delle volte questa leggera saggezza popolare ci azzeccava, ma sempre trattava la futura mamma con una cura che di rado dimostrava per altri. Qualsiasi desiderio della donna incinta era un ordine, che se avesse avuto un disigiu [3] non soddisfatto, ne sarebbe andata della salute del bambino. Probabile costrizione culturale che garantiva alla donna una adeguata alimentazione durante la gravidanza, era sconsigliato che questa, qualora su disigiu non fosse stato soddisfatto si toccasse il volto. Avrebbe in quella maniera macchiato il viso del figlio che sarebbe nato, ecco perché la tradizione sbrigativa consigliava di toccarsi piuttosto il fondoschiena. Una “voglia” di vino, di caffè, di fragole o di ciliegie lì sarebbe stata certo meno vistosa e fastidiosa! Non avevano poi tutti i torti. Deve essersi toccata lo stomaco mia nonna quando su disigiu delle cozze l’aveva presa. Mio padre ne porta ancora il vistoso ricordo, genuino segno di riconoscimento.

Alcune erbe aiutavano a superare i dolori del parto quando ancora l’epidurale era un mistero di fede, e sa levadora, che nella Sardegna tutta intrisa di cultura tradizionale era una vera e propria autorità, una celebrità che sapeva dove mettere le mani poteva consigliare per una strofinatina di valeriana sulla pancia della donna,  o di timo che è bene ricordarlo, doveva essere stato impiegato durante la processione del Corpus Domini. Solo allora si sarebbe rivelato un toccasano in caso di parti troppo lunghi, o nel caso in cui fossero sorte delle complicazioni, che dobbiamo dirlo, erano regola, non eccezione.

Dopo il parto non erano tutte rose e fiori per la puerpera. C’era quel lunghissimo, oggi incomprensibile periodo d’isolamento forzato e c’era la necessità di crescere il proprio figlio lontano dalle malie di quelle creature di fantasia che a notte fonda erano kogas, surbiles, panas e animeddas e che a giorno fatto si mostravano come fame, freddo e condizioni igieniche precarie. C’era anche da fare i conti con la solitudine cui spesso era costretta la nuova mamma e con il timore che il latte materno non bastasse.

Per quaranta lunghi giorni  la donna era obbligata nella propria casa, che non poteva abbandonare. “Sa partera tenidi coranta dis sa fossa oberta” [4] cantilenava un proverbio che chi più chi meno conosceva bene. Dietro il detto si nascondeva l’altissima percentuale di donne che di parto non sopravvivevano e oltre la clausura forzata quel non so che di sporco che aveva donato al sesso la religione ebraica e cristiana, maschiliste e patriarcali fino all’ultima doppia punta della barba. Non per niente trascorsa la quarantena, la donna legittimamente madre, onestamente sposa si doveva recare in chiesa per s’incresiamentu, o s’incresiadura, letteralmente la purificazione. La donna in chiesa riceveva la benedizione che la reintegrava socialmente, con l’acqua santa veniva lavata dalla sozzura e donava a Cristo il sangue del proprio sangue.

Lavata dai propri peccati, la neo mamma doveva guadagnare la sopravvivenza del proprio figlio con le unghie e con i denti. Rischio non da poco era la perdita del latte materno, assenza che avrebbe condizionato l’esistenza della giovane vita. Per propiziare l’abbondanza dell’alimento principe del giovane nascituro, la tradizione riconosceva particolarmente utile una pasta vitrea bianca, che nel colore ricordava appunto il latte. L’amuleto, dal valore apotropaico piuttosto che estetico era localmente detto pedra o perda de latte [5], garantiva l’abbondanza del latte materno e di norma si presentava come una piccola sfera di vetro opalescente incastonato in argento, spesso ornata con preziose applicazioni in filigrana. Le donne dovevano tenere questo piccolo oggetto costantemente a contato con il seno esattamente nel periodo dell’allattamento. Questa pietra, precedentemente abbrebada, ossia trattata con parole e formule magiche che ne incrementavano il potenziale magico, avrebbe favorito la produzione di latte. Un amuleto di questo genere è presente non solo nella Sardegna tradizionale, ma anche in tutta l’Italia meridionale. Normalmente aveva la funzione aggiuntiva di proteggere il neonato dal malocchio e la sua diffusione attesta il timore, ovunque diffuso, che la mamma non riuscisse a garantire nutrimento al figlio.

Il pericolo per antonomasia cui andava soggetto il bambino immediatamente dopo la nascita, specie se particolarmente bello, era quello del malocchio che poteva essere lanciato involontariamente, per un’invidia latente che la persona non riusciva a controllare in quanto non era coscientemente al corrente di provare. Per questo chiunque esprimesse la propria ammirazione per il bambino, era quasi obbligato a toccarlo,” po no du piagai a ogu” [6], avrebbero spiegato le nonne. La pratica conosciuta in tutta la Sardegna, valida per le persone come per le cose, rivela l’implicita credenza isolana che con il tocco dell’oggetto ammirato, si poteva scaricare l’influenza negativa della iettatrice e dello iettatore involontari.

Anche le pietre incastonate normalmente in argento hanno la capacità, trasformate in amuleti dalle sapienti mani degli orefici sardi, di proteggere la nuova e delicata vita. Oggetto che proprio non poteva mancare nel corredo del bambino era sa sabegia [7],  nota anche come kokko o pinnadellu a seconda delle zone. Di forma tradizionalmente sferica, pietra nera in generale, si poteva trattare nello specifico di onice, giaietto o giavazzo, contenuti in cornice d’argento. Il potente amuleto, ricevuto normalmente in qualità di dono per il battesimo, aveva come unico scopo quello di proteggere il bambino contro il malocchio. Attirando il malo occhio, l’amuleto avrebbe fatto da schermo protettivo filandosi o spaccandosi, evitando comunque che a “rompersi” a causa della iettatura fosse il bambino.

Le attenzioni nei confronti del nuovo venuto non erano mai troppe dato che non solo il malocchio, ma anche le kogas, surbiles, strie  e panas mettevano a repentaglio la sua vita. Un pantheon fantastico da leccarsi letteralmente i baffi che spesso aiutavano a giustificare meno dolorosamente le numerose morti infantili causate da fame, freddo e situazioni igieniche precarie.

Kogas, surbiles e strie erano tutte streghe con il vizietto dell’ematofagia. Succhiavano il sangue del neonato dalla fontanella morbida ed invitante fintanto che questo non fosse morto dissanguato. Fra le molteplici “misure di sicurezza” che avrebbero tenuto lontano queste figure da brivido, si poteva ricorrere all’uso di particolari erbe, il cui profumo, piacevole per tutti, dannatamente irrespirabile per le streghe, le avrebbe fatte allontanare.

Le Panas erano tutta un’altra cosa. La donna sarda diveniva Pana nel caso in cui di parto fosse morta. Solo in quel caso sporca del suo sangue e del peccato non lavato al tempio con s’incresiadura avrebbe dovuto scontare una pena lunga sette anni, impiegati a lavar panni a notte fonda, e a cantar ninne nanne sul limitar del lavatoio. Da questi spettri, attirati dal parto d’altre donne, c’era da stare attenti. Le si cacciava purificando la casa grazie alla presenza di un sacerdote, che con preghiere ed abluzioni allontanava le donne spettro. Diversamente queste non avrebbero più abbandonato la casa.

” In primo luogo si vieta il superstiziosissimo rito che, in sardo, viene chiamato ‘incresiari in domo’ cioè il sacerdote benedice, con una candela accesa e con la recitazione del vangelo, la casa della puerpera aspergendola di acqua benedetta. Di questo rito abusano dove una donna partorisce credendo che, col suo parto, compaiano e vaghino in quella casa fantasmi nocivi, chiamati Pantamas (Panas) i quali se non vengono fatti sparire con la purificazione rimangono ivi per sempre e procurano grandi molestie alla famiglia” [8].

Tradizioni antiche, usanze lontane negli anni di cui resta un vago, vaghissimo ricordo, che circondavano il parto, la puerpera ed il neonato, obbligavano il gruppo sociale a farsi stretto contro la nuova famiglia che, delicata più di quanto si potesse immaginare, aveva necessità di sostegno e amicizia. Credenze che non avrebbero potuto sopravvivere all’avvento della medicina, della tv e dei social network, ma che è obbligo di qualcuno raccontare, perché il ricordo non si perda.

Claudia Zedda

Fonti
AA.VV., Gioielli Storia, linguaggio, religiosità dell’ornamento in Sardegna, Nuoro, Ilisso Edizioni, 2004.
Alziator F., La città del Sole, Cagliari, La zattera, 1963.
Atzei D., Le piante nella tradizione popolare della Sardegna, Sassari, Delfino, 2003
Cannas M.,  Riti magici e amuleti: malocchio in Sardegna, Cagliari, Edes, 1994.
Cossu N., Medicina popolare in Sardegna,  Sassari, C. Delfino, 1996.

[2] “Salute e figlio maschio!”.
[3] Parola di probabile influenza catalana, con il significato di “desiderio”.
[4] “La puerpera ha la sepoltura aperta per quaranta giorni”.
[5] Pietra del latte.
[6] Per non consentire al malocchio di nuocere al bambino.
[7] Il nome potrebbe essere degradazione di atzebeje, il giaietto di cui erano ricche le miniere asturiane.
[8]  Sinodo del 1566 di Usellus – Tuccone Tomaso, Leggende  in http://www.webalice.it/ilquintomoro