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L’Editto delle chiudende

A conclusione di lunghi dibattiti tendenti a dirimere l’eterna controversia tra pastori e contadini, contemplata dalle leggi del Deuteronomio e, in tempi meno remoti, dalla Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, il re di Sardegna Vittorio Emanuele I, in data 6 ottobra 1820, promulgò una legge che, sintetizzando il contenuto, fu chiamata l’Editto delle chiudende.

“Proteggere l’agricoltura senza danneggiare la pastorizia”; questo era il fine primario della nuova disposizione legislativa, che anche il Mazzini e l’Asproni definirono “saggia e benefica”.

L’Editto autorizzava a chiudere con muri, siepi e fossati i territori da tempo posseduti e di fatto utilizzati per l’agricoltura; la proprietà collettiva veniva cosi sostituita da quella privata. In Sardegna si era abituati dall’antichità all’uso comunitario del territorio e la pastorizia vagante invadeva spesso anche i campi coltivati.

Nel Campidano e nel Sassarese la nuova legge non incontrò opposizione ma, anzi, in un giornale del tempo, “Il Logudoro” evidenzia ed esalta “il consolante spettacolo dei numerosi colli coperti di uliveti, vigne e giardini”, quale conseguenza della “proprietà perfetta”.

Nel Nuorese e nell’Ozierese l’Editto non ebbe facile applicazione e neppure immediata, ci vollero numerose circolari applicative e non raggiunse gli effetti desiderati. Solo i ricchi, anche pagando falsi testimoni, poterono intraprendere la costruzione di lunghi e costosi muri a secco, alterando abbondantemente i confini di proprietà includendo nelle chiusure fontane, abbeveratoi, strade e pubblici boschi ghiandiferi.

Contro gli abusi si susseguirono violente sommosse: vigneti e coltivazioni varie dati alle fiamme, fattorie distrutte, muri abbattuti e altri gravi reati contro le persone e contro il patrimonio.

Le sollevazioni contro le chiudende incominciarono a Gavoi e Mamoiada tra il 1830 e il 1832 estendendosi successivamente agli altri paesi.

Il Governo Sabaudo in data 1832 istituì la Commissione Militare Mista col compito di ristabilire la tranquillità e con ampia facoltà di applicare qualunque pena contro i demolitori, incendiari, istigatori e autori dei disordini. Il maggiore dei Carabinieri Stefano Cottalorda, abile e preciso inquisitore, indicò come principali istigatori delle demolizioni Giuseppe Massidda che viveva presso il parroco don Emanuele Puxeddu, Giuseppe Serrittu, Giovanni Pietro Canneddu, Antonio Efisio Loche, Priamo Gungui, Giuseppe Corda, Antonio Canneddu. Questi si riunivano nell’ovile di Giuseppe Serrittu per concordare demolizioni ed incendi. A tal fine si formò una squadriglia di oltre cinquanta persone guidate da Luigi Serrittu e dal servo pastore Serafino Deledda. I pastori erano mobilitati da qualche “persona letterata” e i sospetti del Cottalorda cadevano soprattutto sui tre sacerdoti che in quel periodo avevano cura della parrochia di Mamoiada; in particolare su don Diego Mele, vicerettore. A carico degli ecclesiastici non c”erano semplici sospetti perche più volte avevano fatto discorsi compromettenti, prima di nascosto e poi allo scoperto per insinuare che la demolizione delle chiusure fosse lecita e necessaria.

A Mamoiada la situazione sociale era da tempo assai tesa. I numerosi pastori non erano abituati a tenere a pascolo brado i loro greggi su spazi sempre più insufficienti al fabbisogno. L’Editto imponeva ora limiti ancora più ristetti e da qui i torbidi. Si diroccavano quelle tanche dei nobili e cavalieri che, curando di più l’agricoltura, erano stati più solleciti a chiudere. Su un mucchio di sassi della prima tanca demolita, di proprietà di Basilio Meloni, era stata infissa una croce, chiara minaccia di morte. Don Francesco Meloni subì, oltre l’abbattimento dei muri, anche l’indendio del campo. Le altre chiusure demolite riguardavano la proprietà di Giuseppe Meloni, Ignazio Satta, Antonio Meloni, Giovanni Tolu, Raffaele Meloni, Giuseppe Tolu.

I responsabili delle demolizioni furono deferiti all’Autorità Giudiziaria, cioè alla Commissione Militare Mista, presieduta dal Dottor Gionvanni Antonio Tola, che negli anni 1832-33 celebrò in 22 sedute 45 processi contro 97 imputati: 47 presenti, 50 giudicati in contumacia. Il numero più alto di imputati appartiene a Oliena: 24. Contro i Mamoiadini il processo fu celebrato il 30 gennaio 1833: presenti 3, contumaci 9. Furono condannati in contumacia al carcere a vita: Serrittu Luigi, Dessolis Antonio, Massidda Antonio Maria, Canneddu Giuseppe. A 20 anni di carcere Massidda Giovanni Antonio; a 10 Dettori Salvatore; a 3 Loche Antonio Efisio e Canneddu Antonio. Per i tre imputati presenti furono emesse queste sentenze: 7 anni a Massidda Giuseppe, 5 anni a Serrittu Giuseppe, 3 anni a Dettori Antonio. Inoltre il Dettori fu condannato alla penale di 30 scudi.

Il sacerdote Diego Mele, di origine bittese, e viceparroco di Mamoiada dal 1830 1l 1833, fu condannato al soggiorno obbligato nella città di Iglesias per tre mesi. Per interessamento di Monsignor Bua, arcivescovo di Oristano e Amministratore Apostolico di Nuoro, don Mele ottenne di espiare la pena a Ozieri presso il convento dei Capuccini. La Commissione Militare Mista fu sciolta nel 1833: ne approfittarono i proprietari terrieri per ricostruire le chiudende abbattute e per costruirne altre senza il relativo permesso dell’Intendente Provinciale.

Carlo Alberto con carta reale del 17/02/1835 annullò in parte le conseguenze penali della sollevazione contro le chiudende concedendo un indulto verso i meno colpevoli e sospendendo ulteriori provvedimenti contro i contumaci. Unica condizione la promessa solenne “di vivere in avvenire da persone dabbene timorate della divina e umana giustizia”.

Ma il malcontento ormai radicato nell’animo degli allevatori e dei modesti agricoltori, esplose con la sommossa nuorese del 1868, quando l’accorata voce del popolo chiese il ripristino della situazione fondiaria anteriore al 1820 (“su connotu”).

Tuttavia le vaste estensioni terriere, diventate “proprietà perfetta” con l’Edditto, oggi si presentano ridimensionate come estensione e come appartenenza.

dal libro “Mamoiada”-Pietro Porcu – 2000