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Banditi sardi: la vendetta di Giovanni Cano

Giovanni Cano, originario d’Ozieri, compiva i suoi studi presso l’università di Sassari, quando il padre morì.
La madre aveva lasciato questo mondo nel dare alla luce sua sorella Adelita, la quale non aveva ormai altro appoggio che il fratello. Giovanni, lasciando l’università, si ritirò con lei ad Ozieri. Si occupava degli affari relativi al suo patrimonio, quando certe allusioni sulla natura delle relazioni fra la sorella ed uno dei suoi amici, di nome Luigi, giovane medico lombardo, lo inquietarono.

Checché egli attribuisse questi “rumori” alla malevolenza, Giovanni si aprì al suo amico: ‘Te ne prego’, gli disse, ‘allontanati: non nuocere alla reputazione di Adelita.
Luigi partì, ma ritornò da Adelita ogni volta che Giovanni si allontanava da Ozieri.
Una sera, Giovanni giunge all’improvviso e sorprende il seduttore, cui lascia salva la vita se egli sparirà dal paese per sempre; ed egli stesso lascia Ozieri per stabilirsi ad Oschiri, presso suo nonno.
Poi, un giorno partì per Sassari dopo aver incaricato il suo pastore Antonio di ben vegliare sulla sorella e, più che questo, di sorvegliarla, e di spiare il giovane medico.
Era in convalescenza da una grave malattia, quando Antonio lo avvertì delle numerose visite di Luigi.
Egli partì a cavallo, nonostante la debolezza estrema, e giunse di notte ad Oschiri.
Antonio era in strada. Il giovane studente ed il pastore attesero il giorno.
Alle prime luci dell’alba, Luigi uscì dalla casa. Giovanni si lanciò su di lui, ma non volendolo uccidere, lo prese per il colletto e lo trascinò sul bordo d’un precipizio. ‘Ci batteremo ad armi pari’ disse ed uno di noi due cadrà nell’abisso; Antonio ci farà da testimone in questo duello senza pietà’.
Non aveva egli ancora concluso, che Luigi faceva fuoco e fuggiva; allora due colpi risuonarono, Luigi cadeva morto: la pistola di Giovanni, colui che egli, Luigi, aveva mancato, ed il fucile di Antonio, non lo avevano fallito.
La povera Adelita, che aveva assistito da lontano a questa sparatoria, si gettò singhiozzante sul cadavere del Lombardo.
Il paese si svegliava, alcuni carabinieri che passavano a cavallo, sentendo quei colpi d’arma da fuoco, accorrono.
Alla vista del cadavere essi mettono sotto tiro i due uomini e, in nome del re, intimano loro di arrendersi. Per tutta risposta, Antonio tira su uno dei due e lo ferisce. Il secondo carabiniere fa fuoco sul pastore e lo stende morto stecchito.
Ma Giovanni, pronto come il lampo, ha già vendicato Antonio: il carabiniere, colpito da una palla, cade senza vita sulla groppa del suo cavallo e la bestia, folle di terrore, scappa col suo lugubre fardello.
Adelita, coperta del sangue di Luigi, è svenuta. Giovanni la prende fra le sue braccia, la riporta a casa, monta a cavallo e fugge… Eccolo bandito; triste e miserabile erra nel più folto delle foreste del Limbara.
Un giorno la nostalgia lo coglie, vuole rivedere il paese, informarsi sulla sorella, ch’egli ama malgrado tutto. Si avvicina ad Oschiri.
È il crepuscolo. Un vecchio, che lui non conosce, segue la strada. Egli parla a costui di Giovanni. Il vecchio sospira: ‘Vedete’ gli dice ‘la sua casa è laggiù; non vi vedrete alcuna luce, perché non l’abita più nessuno. Giovanni è un grande e nobile cuore, eppure eccolo condannato a morte dai giudici di Sassari, e la sua povera sorella è morta di tristezza nei giorni scorsi’.
Dopo aver parlato, il vecchio riprende lentamente la strada del villaggio.
Giovanni, disperato per questa notizia, risale sul cavallo, si lancia come un folle per campi e pianure e va a precipitarsi da un abisso. Alcuni pastori hanno affermato di averlo visto passare come un fantasma, tutto pallido e con i capelli al vento, gli speroni nel ventre di un cavallo spaventato.
Per un destino miracoloso, la sola bestia si sfracella.
Egli giace esanime sul fondo di un precipizio. Il bandito Gian Domenico Porqueddu, condotto ivi dal caso, tampona il suo sangue, lo rianima, lo trasporta dentro una grotta selvaggia e lo cura con ostinazione.
Gian Domenico è bandito da venticinque anni, si affeziona al suo malato, di cui conosce la sventura: del resto è il compagno, l’amico fuor di legge con cui vagabondano, sempre inseguiti, nella Gallura, l’Anglona ed il Monte Acuto.
Qualche volta, in Sardegna come in Corsica, il clero, le autorità civili o militari, riuscirono a concludere un trattato di pace fra due famiglie da lungo tempo divise: senza questo, le vendette durerebbero sino alla fine del mondo.
Giovanni profittò d’una di queste paci benefiche. Già affaticato dalla dura vita di bandito nella solitudine dei boschi, dalla fame, dalle intemperie e dal perpetuo chivive, egli prese parte alla pace di Tempio, ottenuta per mezzo del vescovo Varesini, e, munito del salvacondotto che ricevette allora ciascun uomo della “boscaglia”, andando a testimoniare, un bel giorno lo si poté vedere alla stessa tavola del carabiniere ferito da Antonio in quell’improvvisa battaglia in cui egli, Giovanni, aveva ucciso il suo uomo.
Alla vista dell’uccisore del suo camerata, il carabiniere si sentì l’odio nel cuore; egli giurò di vendicare il suo amico, e, a tal punto perseguitò il fratello di Adelita, che il bandito dovette fuggire al riparo dei monti del Limbara.
Un giorno in cui Giovanni se ne andava a Macomer per vendervi la sua caccia, il carabiniere, che lo spiava, sparò su di lui e lo mancò; Giovanni non lo mancò di certo.
Dopo questa nuova uccisione la vita fu per lui ancor più dura e miserabile. Lavorò nelle miniere del Sulcis, divenne contadino, pastore, senza trovar mai requie.
Sempre inquieto, dacché era inseguito di continuo, da vicino o da lontano, egli attraversò l’isola e giunse nella Nurra, con una raccomandazione per la famiglia Marras, che abitava la proprietà di la Poneda.
Un giorno, appena veniva sera, si fermò, pressoché morto per la fatica, sul bordo di una fontana, nello stesso istante in cui una ragazza meravigliosamente bella vi andava a riempir la sua brocca.
Buona e dolce tanto quanto superbamente graziosa, ella parlò con gentilezza e dolcezza al bandito, ed ecco, costei era proprio la figlia del signore Marras, del padrone di la Poneda; essa condusse Giovanni presso suo padre. E già Giovanni l’amava con tutto il trasporto della sua fiera e selvaggia natura.
Macché! La deliziosa Mimmia era fidanzata, ed il matrimonio si avvicinava. Giovanni, pazzo di dolore, scappò e, ricominciando a sanguinare ai piedi, sulla via dolorosa, egli vagò di qua, di là, non più attaccato alla vita da radice alcuna.
Sfidava la sorte a colpirlo ancora, e la sorte lo colpì più crudelmente quando, mentre il colera decimava la Sardegna, Mimmia morì in poche ore, in tutto lo splendore della sua giovinezza e della sua bellezza.
Questa fu la fine. Giovanni tornò ad Oschiri, per pregare e piangere tutte le sere sulla tomba della sorella.
È là che i carabinieri lo catturarono, una sera, coperto dal fango del cimitero, il viso inondato di lacrime, i piedi straziati dai rovi del sentiero. Non fece resistenza, ne aveva abbastanza di vivere. Condannato all’estremo supplizio, morì con serenità».

Tratto da: Le isole dimenticate – La Sardegna – Impressioni di un viaggio – di Gaston Vuillier – Edizioni Ilisso – Prefazione di Antonio Romagnino – Traduzione di Marco Maulu

L’immagine e tratta da: Banditi di Sardegna di Franco Fresi – Editore Newton & Compton

Paolo da Ozieri
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