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Il vecchio Castagno

castagno

Era lì. Da diecimila lune le sue radici affondavano in quella terra e le sue fronde vedevano quel cielo.

Era lì. Che fosse estate o inverno, notte o giorno, viveva e amava. Resisteva e si donava.

Da quando era spuntato, giovane germoglio, esile virgulto di castagno, erano trascorsi più di settecento lunghi anni. Da allora erano cambiate molte cose. Solo il tempo e le stagioni si erano susseguite, come sempre, in un cerchio che parlava di nascita e vita, di declino e morte. Di rinascita. Di rinnovamento. In un eterno alternarsi tra crescere e diminuire, tra vecchio e nuovo, che insegnava l’impermanenza dell’essere. E lui aveva imparato: aveva imparato a cambiare e a rimanere se stesso. A non scoraggiarsi. A non cedere.

Quando era caduto a terra, semplice castagna catapultata fuori dal riccio, lontana dalle gemelle, era stata la mano di una Jana a dargli una lieve carezza ben augurante, prima di nasconderlo in un piccolo buco del terreno. Come in un sussurro che veniva da lontano, come una reminiscenza di una vita passata, che non era sicuro fosse nemmeno la sua, ricordava le brevi parole che l’accompagnarono, condite da sorriso di fata: – Tu sei destinata a cose grandi, piccola castagna mia. Riposa, ora. Che avrai lunghi giorni da vivere e sapere. E così fu.

Cavalcava, veloce e fiera, quei boschi Eleonora quando il giovane Castagno, pieno di vita e di fiducia, distendeva le fronde verso il cielo immenso. Quando irrobustì il tronco, era spagnoleggiante la parlata dei signori che gli passavano accanto, a caccia di selvaggina. Era già vecchio e stanco, quando i principi di Savoia, in esilio nella sua Terra, arrivarono fin lassù dalla grande città sul mare, in cerca di riparo dalla calura estiva. Li chiamavano re, Re di Sardegna. E a lui sembrava strano che qualcuno potesse comandare altri. E in casa non propria. Ascoltava. Ascoltava tutto. Anche i discorsi degli uomini. E imparava. Imparava che il trascorrere del tempo lo chiamavano Storia. Imparava che la storia, le vicende degli umani, finiva per coinvolgere tutte le creature, l’intero creato. Ascoltava, ma tante di quelle parole gli sembravano prive di saggezza, vuote d’anima, povere di compassione. E non gli piacevano.

Spesso, tornava a trovarlo la Jana, la sua madrina. Al contrario delle altre, le parole della fata erano come carezze per lo spirito. Erano parole rare e lievi, che insegnavano amore e saggezza. Sembravano una nenia dolce, che scaldava i freddi inverni senza far male. Quando la Jana era con lui, il silenzio e le parole si confondevano, si perdevano l’uno nelle altre. Il tempo trascorreva veloce, ma denso. Era un meraviglioso scambio di esperienze e di vita.

La vita proseguiva per l’etereo spirito del bosco e per il grande spirito che ormai era diventato un vecchio Castagno. In tempi più recenti gli umani frequentarono ancora quei boschi, ma ora, più che nei tempi passati, violavano i luoghi sconvolgendo la pace che vi regnava. I cambiamenti negli ultimi cinquant’anni erano stati repentini e profondi. Ormai gli uomini arrivavano nel bosco con delle grandi scatole rombanti che chiamavano “automobili”. Tagliavano gli alberi. Ne tagliavano tanti. E non lo facevano più alla pari, a forza di sudore e braccia. Usavano le “motoseghe”, e il rumore moltiplicava lo strazio degli abitanti del bosco. Durante la notte alberi ed animali discutevano di ciò che accadeva, con crescente preoccupazione. Solo il vecchio Castagno sembrava resistere nell’esercizio della fiducia. Amava dire di averne viste tante. Invitava tutti a non dubitare mai nelle grandi risorse dello Spirito del Bosco.

A lungo andare, però, anche per lui, l’esercizio della speranza divenne sempre più duro. Alla fine gli uomini non si accontentarono più di tagliare gli alberi. Iniziarono anche a piantarne di nuovi. Il vecchio Castagno dovette assistere al diradarsi dei suoi fratelli. Essi vennero sostituiti da alti e possenti pini. E i nuovi arrivati crebbero. Crebbero presto. Divennero forti. Oscurarono il sole. Privi della fonte della luce e della vita, i castagni si indebolirono, ad uno ad uno. Divennero sempre più nodosi, rachitici. Non riuscivano a respirare. Iniziarono a produrre meno castagne. Iniziarono a essere “inutili” per l’uomo. Anche il vecchio Castagno era in debito di luce, di aria, di vita. Ma provava a resistere. Non venne tagliato. Era antico, e gli uomini sembravano nutrire una strana curiosità per le cose antiche. Non le curavano, ma non le buttavano. Il Castagno osservava. E non capiva, nonostante, con lo scorrere del tempo, i pensieri fossero diventati profonde meditazioni, da cui sgorgavano perle di saggezza, come gocce di rugiada a lenire l’arsura delle nuove gemme che non finivano mai di spuntare, anche nella vecchiaia. Pian piano andò in affanno, come i suoi fratelli. Pensava di aver sentito e visto tutto, ormai. Ma il peggio doveva ancora arrivare. E giunse.

Gli uomini decisero di migliorare la produzione di castagne. Quelle sarde erano troppo piccole per quello che chiamavano il “mercato”. Arrivarono i porta innesti dal continente e, con essi, venne anche la malattia, fino ad allora sconosciuta in quella terra antica. Proprio nelle gemme, dove si crea, lentamente, la nuova vita, iniziò a crescere la morte per i castagni del bosco. Anche il vecchio Castagno, il faro della speranza, si ammalò. E divenne triste, sordo e muto. La Jana sentiva la sua sofferenza. Tornava sempre più spesso a trovarlo. Lo carezzava piano. Cantava a lungo per lui nelle notti stellate. Ma lui non reagiva.

Passò del tempo. Cambiarono le lune e tornò la primavera. Un giorno nel bosco arrivarono dei visitatori. Tre donne e un uomo si avvicinarono con delicatezza al vecchio Castagno. Carezzarono la corteccia. Parlavano piano. Osservavano con sguardi curiosi e amorevoli. Anche la Jana venne a vedere. L’uomo parlava. Raccontava la storia del bosco. Poi estrasse un foglio dalla tasca e iniziò a recitare. Una poesia, in Limba. Il vecchio Castagno si mise in ascolto. Le parole che udì erano antiche, come quelle dei padri. E cantavano una vicenda che sembrava familiare, la storia del patriarca del bosco. Un canto vero e toccante. Triste come solo la cruda realtà sa essere. Il vecchio Castagno riconobbe la sua storia, sentì che ancora gli uomini avevano parole di giustizia e di pace e per la prima volta, dopo tanto tempo, non si sentì solo. Lasciò che quella voce, quelle parole, gli entrassero fin dentro l’anima. Si commosse. E pianse.

Quando i visitatori andarono, rimasero la Jana e il vecchio Castagno. Lui a piangere. A lungo. Calde lacrime liberatorie, fino a quel giorno trattenute a prezzo di un’apatia che non gli era mai appartenuta. La fata a raccoglierle in una piccola ampolla. Arrivò la notte. La Jana allora cantò una nenia dolce come un canto di guarigione. All’alba, quando fu il momento di tornare dalle sue sorelle, aprì l’ampollina e rese al bosco e al suo patriarca il prezioso contenuto. Le lacrime divennero fresche gocce di rugiada, a lenire l’arsura che infiammava di morte le gemme dei castagni del bosco. A lenire e curare. A portare, nel nuovo giorno appena nato, una speranza di vita.

Tiziana Basciu