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Il messaggio educativo nelle fiabe sarde

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La società sarda non ha mutato granché col tempo. Fino a sessant’anni fa si poteva scorgere la classica famiglia sarda composta dal padre, dalla madre, e dai numerosissimi figli.

Ognuno di loro aveva un compito: Il padre era colui che in qualità di capofamiglia, spettava una funzione economica e autoritaria. Capitava spesso che mancasse lunghi periodi dalla propria casa per motivi di lavoro; la madre badava alla casa ed all’educazione dei figli, non solo, anche a lei capitava di lavorare come “srebidora” (serva) nelle case delle famiglie benestanti; il primo figlio maschio era il patriarca, e badava alla famiglia nei lunghi periodi di assenza del padre dalla propria casa. Giunta l’età per poter lavorare, (sei, sette anni circa) anche lui andava via dalla casa paterna per poter guadagnare qualche soldo in più; le figlie femmine aiutavano in casa, badavano all’educazione dei fratelli più piccoli, ed anche loro, giunte all’età di sei, sette anni, cominciavano a cercare lavoro come “srebidorasa” nelle case dei più ricchi.

La società sarda era una società matriarcale, ossia, basata sulla figura della donna. Essa era colei a cui, alla fin dei conti, possedeva più responsabilità. L’assenza della figura maschile comportava alla donna il compito di dover accudire la famiglia completamente da sola.
in passato non si aveva tanto tempo da dedicare ai bambini. Il periodo dell’infanzia non era visto, come un periodo da salvaguardare, ma piuttosto come un peso per i genitori, poiché un bambino, essendo piccolo, necessita di cure e di attenzioni, che tolgono tempo al lavoro, quindi prima i bambini crescevano, prima potevano dare una mano in casa.

I processi educativi utilizzati da tutte le mamme per far sì che i propri figli obbedissero ad un loro ordine prevedevano l’uso di una serie di spauracchi atti ad inculcare nel bambino la paura del pericolo o di quant’altro potesse nuocerli. In questa maniera i bambini non obbedivano grazie a delle spiegazioni razionali, ma attraverso i racconti più o meno paurosi che li venivano raccontati . Non è esagerato dire che ce n’è uno per ogni occasione.
Per i bambini troppo golosi si diceva che arrivava Maria Puntaoru, una donna armata di spiedo che usa per aprire le pance degli ingordi e portare via tutto quello che hanno mangiato.

Palpaèccia è invece una strega che la notte punisce i bambini che fanno i capricci a tavola, non solo, si narra che la notte di Natale si introduca nelle case e poggia pesanti massi sullo stomaco di tutte le persone che hanno fatto da cattive.
Ai bambini che non vogliono dormire si dice che arriva Tziu Masèdu: questo personaggio rappresenta il sonno ed è raffigurato come un vecchietto burbero che non vuol sentir fiatare durante le ore di riposo. Esistono poi una serie di spauracchi femminili, quasi sempre designati con un nome proprio o comune (Mamma, Maria), ed un complemento di specificazione; probabilmente questo è dovuto al fatto che si possa trattare di residui arcaici di divinità della terra e delle acque.

Tra le “mamme” più famose abbiamo Mamma ‘e Su Bentu, Mamma ‘e Funtana, e Mamma’e Su Sole.
Questi tre spauracchi venivano utilizzati per educare i bambini a non farli uscire di casa in certe occasioni, o a tenersi lontani dai luoghi pericolosi. Nelle giornate ventose i bambini, per non farli ammalare, venivano ammoniti dall’uscire di casa dicendo che fuori c’era Sa Mamma ‘e Su Bentu.
Questo personaggio veniva descritto come una donna capace di volare che afferrava i bambini e li rapiva gettandoli dentro un sacco. Sa Mamma ‘e Su Sole era invece una donna descritta come una vecchia coperta da un lenzuolo bianco che, durante le ore più soleggiate, rapiva i bambini rimasti fuori casa.
Veniva utilizzato questo spauracchio in modo che, durante le ore più afose d’estate, quando tutti si ritiravano per la siesta, i bambini non giocassero all’aperto con il rischio di prendere un’insolazione.

Sa Mamma ‘e Funtana era una vecchietta malvagia che abitava nelle acque. Quando un bambino giocava vicino ad un pozzo o accanto ad un ruscello, gli si diceva di allontanarsi immediatamente perché Sa Mamma ‘e Funtana era lì pronta a rapirlo. Sa mamma ‘e Funtana era conosciuta anche con i nomi di Maria Puzzu, Maria Farranca, e Maria Branca.
Tra tutti gli spauracchi, però, il più noto, specie nel Campidano, è sicuramente Mommotti. Anche ai giorni nostri questo spauracchio viene continuamente usato per far star buoni i bambini. Viene descritto come un uomo nero avvolto in un grande mantello, ed ha con sé un gran sacco in cui infilava i bambini disobbedienti e fastidiosi.

<<Se non stai buono chiamo l’orco>>, <<Mangia che altrimenti arriva il lupo>>. Chi di noi non ha sentito almeno una volta qualche adulto pronunciare una frase simile? E non c’è dubbio che il tanto temuto lupo (od orco, o vecchia) era immediatamente riconducibile a certi tipici personaggi del mondo delle fiabe, così vicino a quello del bambino, da essere percepito come qualcosa di profondamente vero.
Crescendo, poi, tutte le mamme passavano dal raccontare le precedenti storie a quelle in cui si narrava delle gesta degli eroi sardi come Iolao, Norax e Torco, ma soprattutto narravano loro anche le grandi azioni dei banditi, che con il loro coraggio sfidavano la giustizia quasi prendendola in giro; insomma, il loro scopo era che, crescendo, i loro figli diventassero dei balenti.

Ma che significa esser balenti?
Esser balenti (cusu chi ballidi, ossia colui che vale) in Sardegna, era la massima aspirazione per un giovane sardo, ed il divenirlo era segno di grande popolarità e rispetto in seno alla comunità.
L’uomo, per essere veramente definito “uomo”, doveva sin da giovane abituarsi a tutto: difficoltà, dolori, pericoli, paura ed avversità. Solo in questa maniera si forgiava l’animo alla balentia.
La balentia era l’affermazione del coraggio, dell’abilità, della forza, e chi le possedeva ricalcava il prototipo di un eroe che faceva parte del mito del Sardus Pater.

Il balente esercitava il suo coraggio durante la notte, poiché è durante la notte che compaiono gli esseri malvagi come il diavolo, S’Èrchitu, e tutti gli altri esseri tenebrosi.
Si raccontavano così storie sulle magnifiche imprese compiute da autentici balenti, imprese eroiche, come quella di cogliere la rosa di Gerico, possedere i tre fiori della felce maschio, o ancora trovare l’acqua della salute.
Queste tre leggende altro non sono che dei riti di iniziazione che venivano effettuati in passato dal popolo sardo. Il rito d’iniziazione veniva celebrato per festeggiare in modo solenne il passaggio dei ragazzi dall’infanzia all’età adulta.

Essi venivano sottoposti a numerose prove con le quali dovevano dimostrare di saper affrontare da soli le ostilità dell’ambiente e di essere pertanto maturi per iniziare a far parte del mondo degli adulti. Dopo le prove, i ragazzi abbandonavano per sempre il mondo dell’infanzia per passare al mondo degli adulti.

Le mamme sarde avevano ben altro a cui pensare che stare dietro ai loro piccoli, a malincuore dovevano far si che i loro bambini capissero in fretta che il mondo è difficile e complicato, e che i loro figli dovevano tenere gli occhi bene aperti sui problemi che li circondavano, affrontando con disponibilità la faticosa interazione con la società dei grandi senza essere intrappolati tra gli incantesimi della fanciullezza. Essi dovevano abbandonare in fretta il mondo spensierato dei giochi, e cadere così nella cruda realtà di un mondo in cui se non si imparava in fretta un mestiere, non si poteva mangiare.

Si pensava così ad un bambino che doveva crescere in fretta, senza dargli troppo affetto, perché l’affetto era un sentimento che non si addiceva ai giovani balenti, e grazie alla paura inculcatagli dagli spauracchi che un tempo avevano fatto temere i suoi stessi genitori, come lo spauracchio dell’orco e delle streghe, gli si insegnava le buone maniere e la sottomissione a certi modelli di comportamento.

Gli orchi, i lupi, le streghe, che popolavano insieme a folletti, cavalli alati, fate, principi e principesse quel mondo meraviglioso, dovevano dunque spaventare i bambini, costringerli ad una forte tensione psicologica, provocarli così gravi angosce attraverso tutte le loro vicende truculente ed assurde. Si inculcava così una sorta di educazione fondata sul ricatto e sul terrorismo psicologico, anche per la maggiore attenzione dedicata a livello di massa ai problemi della crescita e dello sviluppo.

I valori che si trovano all’interno di una fiaba, quali il ruolo della donna, la bellezza, il potere, i rapporti e le figure sociali, la forza fisica, la felicità nel matrimonio, ecc. non potevano trovare posto in una società come quella sarda presente sino al secondo dopoguerra, proprio perché andava contro i capisaldi della vecchia educazione fondata sull’autoritarismo, sul ruolo della donna e sui compiti che una famiglia doveva affrontare.

Mai nella società sarda si è visto che la figlia di un povero contadino potesse sposare il figlio di un re, o che arrivasse un essere magico che aiutasse un poveretto a far fortuna. Tutto ciò significava metter cattive idee ai giovani bambini, a farli fantasticare, e all’epoca fantasticare non era permesso. Bisognava pensare a cose ben più importanti, ben più reali, come lavorare, guadagnarsi da mangiare, e sopravvivere come meglio si poteva.

Materiale tratto dalla tesi di laurea di Lucia Incani