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Accabadoras, testimonianza di un emigrato

Vagando per la rete, abbiamo trovato un interessante articolo pubblicato sul “Messaggero Sardo”. Si tratta di una testimonianza diretta di un emigrato Sardo, il signor Giovanni Arcai, il quale afferma afferma di essere stato testimone da bambino «di almeno due interventi della accabbadora, in quel di Cuglieri».

Ne ho lasciato traccia – scrive il sig. Arcai – nelle mie memorie «in attesa della bella signora», non ancora ultimate (dato che ancora l’aspetto) e che lascerò in eredità ai miei nipoti,

Un particolare rispetto era tributato a su murone – il muflone – re della montagna e oggetto di molti racconti fantasiosi. Era un vanto del padre portarsi il figlio in montagna per fargli conoscere il Signor Muflone, attento e immobile come un dominatore sullo strapiombo. I bambini che avevano avuto questa fortuna la raccontavano con orgoglio ai compagni. Ho il ricordo in parte confuso, in parte lucido, della morte di un vecchio muflone, del quale si raccontavano storie ai bambini. Era stato trovato,
vecchio e morente, in un bosco impervio  Si diceva che il muflone ha la vista acutissima, come le aquile. Invecchiando la perde, tanto da non poter più calcolare la distanza fra un dirupo e un altro. Questo muflone vecchio, ma ancora ardimentoso, aveva sbagliato il salto, finendo dentro un crepaccio profondo con le gambe fratturate.

Era condannato a morire lentamente di dolori e di fame, mentre uccelli e altri animali predatori e milioni di insetti schifosi cominciavano a mangiarselo ancor vivo.
Si riunì una sorta di commissione di paesani che possedevano il fucile, “sos accabbadores”, quelli che mettono fine pietosa a una vita. Nella catena di Monteferro, la cui punta supera i mille metri, accadeva tal volta che un cavallo amatissimo si fratturasse una gamba, in un sito donde non era possibile rimuoverlo per curarlo: a parte il fatto che a una gamba rotta di cavallo non si poteva rimediare in alcun modo.
Verso sera la commissione si era trovata nella nostra stanza a piano terra, sei o sette persone, compreso Aristeo, presieduta da thiu Zizzu Murtas, che non era un cacciatore, ma gli era riconosciuto rispetto e
autorità. Ricordo che erano della partita thiu Bibbia Idda, thiu Antoni Oro ed altri.

Cinque fucili furono messi alla rinfusa sul tavolo e coperti con un telone. Thiu Zizzu Murtas mi ordinò di togliere una cartuccia dalla sua tasca, colma di cartucce, poi trasse a caso un fucile da sotto il telone e lo consegnò a colui che lo riconobbe suo.

Gli fece aprire la culatta e di sua mano vi infilò la cartuccia; nessun altro poteva toccarla, perché non si capisse il peso. con lo stesso rito furono caricati gli altri fucili. Poi tutti uscirono verso il tramonto, a dare morte pietosa al muflone, con una sola pallottola caricata in uno dei cinque fucili.

Così tutti e cinque avrebbero sparato insieme, ma una sola pallottola avrebbe ucciso l’amico onorato: ucciso da tutti e da nessuno.
Mentre essi uscivano comparve Cicita, mi trattenne con sè e si fece il segno della Croce, chissà se per il muflone o per colui che non sapeva di avere il fucile caricato con l’unica palla di piombo.

Più avanti negli anni appresi che questo sistema lo avevano acquisito anche i reduci della Brigata Sassari. Gli era stato insegnato dai reales – i soliti carabinieri – quando sul campo di battaglia occorreva fucilare una spia, o un traditore, o chi abbandonava i compagni durante un assalto. Ma anche su queste cose terribili c’erano molti misteri, che venivano nascosti ai bambini.

Però fin da presto i bambini più furbi, e più curiosi di scoprire i segreti dei grandi, imparavano in fretta che c’erano anche le accabbadoras.   Erano vecchie donne misteriose che andavano a dare gli ultimi conforti ai malati condannati dalla mala sorte a morte lenta e dolorosa, oppure a stare per tempi lunghi sul letto di morte, immobili e privi di conoscenza, pieni di piaghe e già puzzolenti di escrementi e di pus. A buio fatto l’accabadora entrava nella casa – trovava la porta aperta – si sedeva accanto al capezzale, carezzava la testa del tardo a morire, gli cantilenava il rosario, poi una delle tante nenie per addormentare i bambini. Infine una botta secca sul cranio, con un suo attrezzo avvolto nell’orbace spesso e nero.  A seconda dei casi l’accabadora chiudeva la bocca col palmo della mano, stringendo delicatamente
le narici con due dita. Ottenuto l’effetto, interrompeva la nenia con uno stacco sincopato, come un singulto, si copriva il capo e il volto col fazzoletto nero e lasciava la casa senza incontrare nessuno, senza ricevere né ricompensa né grazie, né scambiare saluti.   Poco dopo un qualche familiare scopriva e annunziava la morte con alte grida di dolore, e venivano accesi i ceri attorno al letto.

Più tardi, al liceo, compresi che le Parche erano le accabadoras di tutti gli uomini, ma meno pietose, irresponsabili, inesorabili, perché toglievano la vita anche ai bambini, senza dolore proprio. Questi misteri venivano, in quei tempi, capiti per istinto, senza meraviglia né paura della morte. E si conservava il segreto. Di sicuro non veniva rivelato né ai reales, né a su zuighe, tanto meno agli estranei, ma neppure al confessore: forse perché sapeva, forse perché si era convinti che non si commetteva alcun peccato né reato, ma una dolorosa azione necessaria.

Più avanti negli anni, sempre al Liceo, appresi che forse obbedivano alla “necessitas” di cui parlò il filosofo Carneade, due secoli avanti Cristo, lasciando ai cristiani questo messaggio:
“La terra deve essere restituita alla terra, quando la nostra vita verrà recisa come uno stelo di frumento. Lo comanda la Necessità”. Il termine latino “necessitas” indica la fatalità, il destino uguale per tutti, che detta regole uguali per tutti, che detta regole dall’interno di noi stessi. E si obbedisce, anche
senza sapere chi mai fosse Carneade.