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Abili navigatori i popoli dei nuraghi

Giangiacomo Pisu, dall’Oceano ai porti Shardana in Sardegna
Il suo sogno? Scoprire i resti di una nave nuragica. Per Giangiacomo Pisu, marinaio di lungo corso con la passione per l’archeologia, sarebbe come per un investigatore trovare il cadavere di un omicidio. La prova materiale del delitto. Qui non ci sono crimini da svelare, ma uno dei segreti più affascinanti e misteriosi della nostra protostoria. Gli antichi abitanti della Sardegna erano navigatori oppure no? Quale rapporto con il mare avevano i nuragici e i loro padri?

Giangiacomo Pisu è convintissimo delle sue tesi: non ci possono essere più dubbi sul fatto che i sardi dell’età del ferro e del bronzo fossero degli abilissimi marinai, capaci di girare in lungo e largo il Mediterraneo per i loro traffici commerciali, ma anche per combattere come pirati o mercenari al soldo dei faraoni egizi.

C’è di più: i sardi erano ottimi ingegneri navali e avevano molte nozioni di astronomia. Quanto basta per spazzare il falso mito che da secoli ci portiamo dietro e che ci vuole un popolo di semplici contadini e pastori, timorosi del mare da cui – si dice – arrivavano solo nemici e terrore. Tutto questo, sempre secondo Pisu, per giungere a una conclusione: i costruttori dei nuraghi altri non erano che gli Shardana, uno dei popoli del mare citati nelle fonti bibliche ed egizie.

«Su questo punto posso fare solo congetture» sottolinea il marinaio-archeologo: «Nessun studioso oggi può affermare con certezza che gli Shardana provenissero dalla Sardegna. Le ricerche genetiche ci confermano che i nostri antenati erano diversi dagli altri popoli del Mediterraneo, ma ancora non conosciamo le origini dei progenitori dei popoli nuragici. Sulla base delle mie ricerche, però, posso sostenere che i sardi erano dei grandi marinai dell’antichità».

Giangiacomo Pisu sfida chiunque a contestare i dati scientifici che presenta nei suoi studi: «L’astronomia e l’ingegneria navale sono discipline universali. Non si può costruire una nave che non risponda alle leggi di galleggiabilità, stabilità e idrodinamica. Non potrebbe navigare e affonderebbe subito». A questi temi, che da anni lo appassionano come e più del mare, Pisu ha dedicato due libri: “La flotta Shardana” (Ptm, tre edizioni, la prima nel 2004) e “I porti nuragici” (Ptm, 2005). Ma chi è questo singolare marinaio che scrive saggi e va in giro per conferenze e dibattiti? Il curriculum, davvero unico, farebbe pensare a un anziano lupo di mare.

In realtà Giangiacomo ha solo 35 anni. Figlio di un operaio dell’Intermare di Arbatax, nasce a Baunei, dove vive tuttora. Studia all’istituto nautico di Cagliari e comincia a navigare a quindici anni. «Per mantenermi agli studi dovevo lavorare d’estate», dice. Dopo il diploma arrivano i primi veri imbarchi. Dal 1989 non si è più fermato: quattordici giri del mondo su ogni tipo di nave. Ha scalato tutti i gradi sino a diventare comandante in prima. «Mi posso vantare di essere stato il più giovane capitano di lungo corso d’Italia», rileva con giusto orgoglio.

L’ultimo viaggio l’ha appena concluso: sette mesi al comando di una nave “bull carrier”, quei mostri degli Oceani di oltre centomila tonnellate e 200 metri di lunghezza. «Sono andato a prenderla a San Francisco, poi avanti e indietro per tre volte attraverso lo stretto di Panama trasportando cemento e farina di pesce. Perù, Florida, quindi nel Nord Europa dove ho caricato fertilizzanti per il Kenia e il Sud Africa che ho raggiunto passando per Gibilterra e il Canale di Suez.

ImageOra basta, dopo vent’anni comincio ad essere un po’ stanco di questi viaggi oceanici anche perché sulle navi si è sempre più soli con personale composto interamente da filippini. Qualsiasi cosa accada puoi contare soltanto su te stesso». Giangiacomo Pisu non lo nasconde: vorrebbe un posto meno stressante, magari in una base nautica, in un porto o pilota di traghetto. «Così potrei approfondire i miei studi sui popoli nuragici», dice. Ma come è nata questa passione? «Andando per mare sin da ragazzo notavo i numerosi nuraghi che si affacciano sulla costa. Mi chiedevo a che cosa servissero in quella posizione.

Sui libri leggevo che i nuragici erano contadini e pastori e che le torri di pietra erano l’espressione della loro civiltà. Gli studiosi parlavano di case e fortezze, ma nessuno prendeva in considerazione i nuraghi costieri legati in qualche modo al mare. Per gli archeologi, in mancanza di un riscontro sul terreno, il problema proprio non esisteva. Ma come pensare di trovare i resti di una nave di legno tremila anni dopo?». Può spiegare il filo del suo ragionamento? «Semplice. Sono partito dallo studio tecnico di quelle torri costiere. Le ho guardate con l’occhio non dell’archeologo, ma del marinaio. Ho capito che erano i punti di rilevamento necessari per gli allineamenti a terra. Esattamente come si fa oggi: seguendo i segnali costieri si può arrivare in porto senza finire sugli scogli o nelle secche.

Così ho battuto palmo a palmo tutta la costa dell’isola e ho riscontrato almeno una trentina di possibili porti nuragici. Tutti perfettamente segnalati dalla posizione dei nuraghi. A quel punto avevo bisogno delle prove». Le ha trovate? «Certo. Mi sono immerso in ciascuna insenatura e ho individuato i resti evidenti di un qualsiasi porto: pietre squadrate di banchine, lastroni che servivano per la zavorra, rocce a forma di bitta e soprattutto numerose àncore. Tutti i reperti si trovano ad almeno quattro metri di profondità. Una prova in più visto che nei millenni il livello del mare si è alzato almeno di tre metri.».

Come sono le àncore nuragiche? «Di due tipi. Una semplice pietra con un foro al centro per piccole imbarcazioni e una più massiccia con tre buchi. I due fori laterali servivano per le marre di legno. Alcune di queste àncore sono state recuperate e sono conservate nei musei, ma per ciò che mi risulta nessuno le ha mai riportate all’epoca nuragica». Dove sono i porti nuragici? «Ho tracciato una mappa dettagliata. Tanto per citarne alcuni: Cagliari ne aveva tre (Santa Gilla, Via Roma, Capo Sant’Elia). Lungo la costa ogliastrina a Girasole, Tertenia, Cala Sisine e Cala Luna, risalendo Santa Lucia-Siniscola, Olbia, diversi approdi nell’arcipelago maddalenino e a Santo Stefano, Porto Pozzo, Santa Teresa, Cala Oliva e Cala del vino ad Alghero dove ho fatto i ritrovamenti più interessanti. Sicuramente nell’isola di Mal di Ventre, poi alcuni siti nel golfo di Oristano, a Sant’Antioco e a Tuerredda vicino a Capo Spartivento».

Lei ha scritto un libro sulla flotta Shardana. Sinora non è stato trovato alcun reperto di nave. Su quali basi poggia le sue ipotesi? «La prova dell’esistenza di una flotta nuragica si può trovare in ogni museo, solo che sino a poco tempo fa gli archeologi non l’hanno neppure presa in considerazione». Quale prova? «I bronzetti, è evidente. Conosciamo almeno un centinaio di bronzetti che rappresentano imbarcazioni. Venivano definite lampade votive. In realtà sono dei modellini, riproduzioni in scala di navi autentiche. Se i nuragici raffiguravano carri, animali e guerrieri, perché non dovevano riprodurre anche le loro navi? Le proporzioni sono perfette.

Dall’esame attento delle misure e delle forme, come di recente ha confermato in un suo libro l’archeologa dell’università di Sassari Anna Depalmas, è possibile ricostruire la tipologia delle imbarcazioni nuragiche». Com’erano? «Conosciamo almeno due tipi di navi commerciali. Le prime, larghe e piatte, si basavano sulla stabilità della forma. Le seconde, più strette, sulla stabilità dei pesi. Entrambe utilizzavano vele e remi, erano adatte alla navigazione costiera, ma anche a quella d’altura. Potevano arrivare a 40 metri di lunghezza per otto di larghezza, con un dislocamento a pieno carico di almeno 450 tonnellate. In pratica più grandi delle caravelle di Colombo».

Dunque, i sardi erano in grado di navigare per tutto il Mediterraneo. «Certo, come dimostrano i numerosi reperti frutto di scambi commerciali. Conoscevano i venti, le correnti e si muovevano di notte osservando le stelle. Potevano tornare in Sardegna misurando la latitudine ovunque si trovassero. Partivano in maggio e rientravano in ottobre. Sei mesi erano sufficienti per arrivare sino alla Turchia e per rientrare a casa con le loro merci».

di CARLO FIGARI
www.unionesarda.it

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